giovedì 30 gennaio 2014

Dalla storia all'identità di un popolo

Peppe Carucci
Corriere del giorno, 28/3/2013


Taranto, antica città di origine greca, ha vissuto il suo periodo piu’ florido dal 700 all 350 avanti Cristo, periodo in cui splendeva come un diamante nel mediterraneo per la sua fiorente economia e per la sua potente armata di sangue spartano. Terra di bellezza straordinaria, posto dal clima unico, ha ispirato nei secoli grandi letterati e filosofi. Un lasso di tempo storico breve pero’, visto nel lungo periodo. Poi un inesorabile, lento declino. Da terra di conquistatori si trasforma in terra di sconfitti. Da sempre strategicamente appetibile la sua posizione geografica nel mediterraneo è teatro di decine di epiche battaglie. Distrutta e ricostruita per una dozzina di volte, i cittadini dell’antica capitale della Magna Grecia subiscono per 19 secoli Romani, Goti, Bizantini, Franchi, Arabi e Saraceni, Normanni, Svevi, Turchi, Angioini, Aragonesi e Spagnoli. I tarantini per secoli ne vedono di tutti i colori e subiscono nefandezze di tutti i tipi. Di fronte a tante e tali dominazioni, di fronte a tante diversità di culture, è impossibile immaginare un popolo che abbia formato intorno a qualcosa la propria identità. E’ esattamente cosi’.

Taranto, nel 1610 è un piccolo, povero centro con una popolazione di 12300 abitanti, fatta di pescatori, agricoltori, analfabeti, stipati in spazi stretti ed angusti della attuale città vecchia. E’ un periodo anche, in cui si insediano in città molti ordini religiosi. Dai gesuiti ai fatebenefratelli, dai celestini ai benedettini, ed infine ai carmelitani. L’avvento dei religiosi in città coincide non solo con la formazione religiosa dei tarantini ma, anche, grazie all’impegno sul territorio, all’arginarsi del fenomeno di analfabetizzazione estremamente diffuso. Nel 1650 poi, c’è l’avvento dei pellegrini che giungevano fino a noi dalle lontane terre d’oltre alpi, con fatica e rischi, annunciando il messaggio cristiano. In un momento in cui pestilenze e carestie funestavano i territori, nascono nel meridione d’Italia ed a Taranto le confraternite, strutture laiche e società di mutuo soccorso. Nel nostro piccolo centro cittadino ne nacquero a decine. In un tempo storico difficile e di grande bisogno spirituale le confraternite favoriscono il diffondersi del messaggio cristiano
Nell’allora borgo antico risiedevano, oltre agli ordini religiosi, 4-5 famiglie di nobili, grossi latifondieri. Una di queste era la famiglia Calò. Il loro capostipite don Diego Calò ordinò per la sua tenuta patrizia 2 statue in cartapesta, quelle di Gesù Morto e dell’Addolorata, con lo scopo di portarle in processione il Venerdi’ Santo di ogni anno. E’ solo nel 1765 che suo nipote Francesco Antonio, in piena carriera politica, dal momento che non aveva più tempo di occuparsene e per assicurarsi il perpetrarsi nel tempo del Sacro rito che avevano istituito , decise di donare quelle due statue all’allora Confraternita del Carmine, che eseguiva già il pio esercizio del pellegrinaggio ai sepolcri e che si distingueva dalle altre per zelo e decoro. Da quell’anno, cosi’ come riportato negli studi del compianto, storico e Priore Nicola Caputo, la Confraternita si occupò di organizzare la Processione dei Misteri per le vie della città. Un momento importante, unico di religiosità e pietà popolare, per l’intera cittadinanza e che avvicinava alla fede migliaia di tarantini. Più in là, la confraternita decise di aumentare le statue della processione aggiungendo quelle di Gesù all’Orto, alla colonna, alla canna, alla caduta sotto il peso della croce, con il crocifisso e la sacra sindone, col fine di rappresentare i momenti salienti della morte e passione di Gesù Cristo descritti nei vangeli. 
I tarantini ogni anno attendevano trepidanti il passaggio di quella processione, che insieme quella dell’Addolorata ed al sacro rito del Pellegrinaggio andavano a costituire i nostri riti della Settimana Santa, oggi rinomati in tutto il mondo. Un momento di straordinaria spiritualità, grazie al quale in tanti ritrovavano la propria fede perduta. Riti sapientemente conservati e che hanno superato nei secoli le dominazioni francesi, spagnole e barbare. Religiosità popolare che ha resistito al veloce processo di industrializzazione e di modernità a cui è stata sottoposta la città negli ultimi 150 anni e, che avrebbero potuti spazzarli via se non ci fossero state delle solidissime basi di fede cristiana da parte delle confraternite che li hanno perpetuati.

Dal 1765, un rito perpetrato con fede e devozione, tramandato immutato di padre in figlio, di generazione in generazione nel segno della tradizione che continua, che aggrega e diventa identità di un popolo che per decine di secoli non ne ha mai avuta. I riti della Settimana Santa tarantina sono l’unica cosa che in 250 anni a Taranto non è mai cambiata, aggregando un popolo che ancor oggi, risulta profondamente diviso e spaccato su tutto.
Un patrimonio genetico da conservare ed a cui restare attaccati fosse l’ultimo baluardo da difendere per mantenere inalterata l’identità di un popolo.

mercoledì 29 gennaio 2014

I nostri Riti..chi ha influenzato chi..

Antonello Battista

Molto spesso i nostri Riti della Settimana Santa di Taranto vengono accostati nelle maniere più varie ai Riti Spagnoli, in particolare a quelli Sivigliani, sebbene Nicola Caputo avesse avanzato un’origine Aragonese e Saragozzana degli stessi.


In più occasioni esperti, cultori o presunti tali, che delle tradizioni Tarantine si fanno garanti, nel malcelato tentativo di spiegare l’essenza dei Riti a chi esperto non è, propongono quest’accostamento non sempre affermando il giusto. Da sempre sulla materia ci si divide su quanto nel corso della storia i Riti Spagnoli abbiano influito sulle nostre processioni e di quanto queste ultime siano più o meno derivate dalle loro.
I Cataldiani più oltranzisti e sciovinisti combattono la tesi di un qualsiasi collegamento storico coi Riti Iberici, negando in ogni caso una comunanza tra le due tradizioni, mentre i più accaniti sostenitori di un’attinenza storico-culturale tra le due realtà, arrivano a sostenere una subordinazione connaturata dei Riti Tarantini nei confronti di quelli Sivigliani e Spagnoli in generale. Io invece vorrei proporre una terza interpretazione storica di questa “disputa” cercando una “terza via” alle tesi proposte dal dibattito tradizionale. Siccome alla base di qualsiasi tesi argomentativa c’è sempre un giusto mezzo di valutazione, vorrei provare ad analizzare i due Riti per trovare una sintesi nelle effettive manifestazioni storiche e liturgiche che le due tradizioni ci propongono.



La "Macarena" di Siviglia

I miei studi personali e il grande amore per i Riti Pasquali, mi han portato a studiare e conoscere a fondo le tradizioni dei popoli Iberici ed essendo un Confratello del Carmine, a fare mio tutto quel bagaglio culturale e storico, necessario per calarmi completamente nello spirito della Settimana Santa Tarantina, elaborando la mia personale opinione (sia chiaro, quella di un semplice studentello appassionato di ricerca), ma utile a poter sciogliere dei nodi che da tempo si sono portati al pettine della ricerca storico-sociale della nostra città. Analizziamo adesso le liturgie dei due Riti una per volta, iniziando da quella Sivigliana, per cercare riscontri nella nostra. Innanzitutto partiamo dal presupposto che le Confraternite della città, in Spagnolo Hermandades, che compiono il loro cammino di penitenza sono 57, ognuna destinata a salir a la calle, uscir per strada, in un giorno preciso durante la Settimana Santa, compiendo per l’appunto la “Estación de penitencia”, non una vera e propria processione ma piuttosto, come l’espressione spagnola stessa suggerisce, un “pellegrinaggio di penitenza” che ha un percorso prefissato e delle tappe da rispettare nel passaggio presso determinate Chiese o luoghi sacri della città , per poi transitare obbligatoriamente dalla Cattedrale durante il cammino.


Quest’aspetto dell’itinerario delle Confraternite Sivigliane ricorda molto il Pellegrinaggio che le tutte le nostre Confraternite cittadine compivano il Venerdì Santo nei secoli passati e che hanno compiuto sino ai primi decenni del XX secolo, in adorazione degli Altari della Reposizione nelle Chiese della città. Anche le Confraternite Tarantine, per giunta, avevano percorsi ben definiti da seguire. Su tutte aveva la “dritta”, ovvero il diritto di precedenza ad entrare in Chiesa, la Congrega del Carmine, che ancora oggi conserva tale diritto essendo l’unica Congrega cittadina a svolgere il Pellegrinaggio nel pomeriggio del Giovedì Santo.


Questa analogia tra l’antico Pellegrinaggio delle Congreghe Tarantine e le “Estaciones de penitencias” Sivigliane, non è del tutto trascurabile, se si tiene conto anche della composizione dei cortei processionali.

“Los cortejos” Sivigliani vengono aperti dalla Cruz de Guía (la croce processionale) accompagnata da fanali ed insegne, poi il seguito dei Confratelli incappucciati, detti Nazarenos, con in mano un grosso cero o delle croci sulle spalle, infine il Paso, sarebbe a dire il gruppo statuario che chiude il corteo processionale, e che è diretto da un Capataz, una sorta di capo che direziona i Costaleros, (i portatori) nelle manovre di carico. A ben guardare, la composizione dei cortei processionali Sivigliani è del tutto analoga a quello delle antiche Confraternite Tarantine che a loro volta, aprivano i cortei con la Troccola e la Croce dei Misteri, poi seguivano le poste dei Confratelli, infine il Trono col Bastoncino, simbolo del comando del Priore. Questa struttura processionale è stata conservata per grandi linee nel Pellegrinaggio della Vergine Addolorata nella notte del Giovedì Santo, alla quale si è aggiunto il simulacro della Vergine alla fine del XVIII secolo, a dimostrazione del fatto, che i nostri Riti così come ora noi li conosciamo, hanno una matrice in questa antica pia pratica del Pellegrinaggio.


In tutta sostanza come sintesi di quest’analisi, emerge come la comunanza tra i nostri Riti e quelli Spagnoli, non si sostanzi nelle forme attuali di liturgia e ritualità delle nostre due processioni del Giovedì e Venerdì Santo, nell’espressione “moderna”, ma piuttosto nella pia forma dell’antico Pellegrinaggio delle Congreghe Tarantine ai “Sepolcri”, che è l’esito di una religiosità popolare che trae origine dal Cattolicesimo del Medioevo e dalla appartenenza antropologica ad un ceppo Latino, Sud Europeo e Mediterraneo che ci vede accomunati coi nostri “cugini” Iberici in una stessa identità culturale.


A mio parere dunque, è giusto affermare che non c’è una diretta derivazione, come in molti affermano, ad imitazione (nei gesti, nelle andature e nelle liturgie), dei nostri Riti da quelli Spagnoli, ma piuttosto che derivino entrambi dalla stessa tradizione antropologica Cattolica e Mediterranea, che nel corso dei secoli si è sviluppata e differenziata portando le due tradizioni alle forme attuali. Soggette, queste ultime, sì ad un processo di “osmosi” dovuto alla dominazione Spagnola dell’Italia Meridionale, ma evolute nel corso degli anni in due realtà differenti, come due sentieri di uno stesso bivio. Ahimè sì, separate in due realtà differenti! Perché non c’è niente di più vero nell’affermare che al giorno d’oggi noi Tarantini siamo completamente diversi dai “cugini” Sivigliani. Loro hanno saputo fare “sistema”, hanno compreso l’importanza della loro tradizione, han portato avanti il loro lavoro in un “marchio” (mi si conceda l’abbassamento prosaico del termine), che ha dato lustro alla loro Terra e che li rende inconfondibili agli occhi del Mondo, garantendosi di conseguenza, economia e turismo. Noi invece, per decenni schiacciati in inutili polemiche e dispute personali sulla modernità dei tempi e sulle brevi e fallaci “prospettive dell’acciaio”, oppure trascinati da particolarismi d’opportunità privati, non ci siamo resi conto delle risorse e dell’importanza del tesoro inestimabile che la Storia e i Calò, ci hanno donato e che noi Confratelli del Carmine difendiamo e custodiamo con ardente orgoglio.

martedì 28 gennaio 2014

Il pellegrinaggio dei “perdùne”: le nostre “Sette Chiese”

Giovanni Schinaia
Corriere del Giorno, Giovedì Santo 2012




Sono le 15 in punto del Giovedì Santo quando finalmente, dopo un lunghissimo anno di attesa, si aprono i due ingressi della Chiesa del Carmine: la Prima Posta di Città Vecchia e la Prima Posta di Città Nuova, danno inizio al rito del Pellegrinaggo agli Altari della Reposizione, la parte visibile della Settimana Santa è iniziata.
I Confratelli vestono l’abito di rito della Confraternita del Carmine: un sacco bianco, simbolo della veste battesimale; lo Scapolare del Carmelo, nero con le scritte ricamate in azzurro: Decor Carmeli; la mozzetta color crema con i bottoncini neri; il cappello nero bordato di azzurro, il cappuccio bianco a coprire il viso. In una mano reggono il bordone, nell’altra, nascosta sotto la mozzetta, una grande corona del Rosario. Avanzano scalzi, a coppie. 
L’evento cultuale svolto in coppia ha una lunghissima tradizione nella storia della Chiesa. L’origine è facilmente individuabile nel brano evangelico in cui Gesù invia i suoi a predicare, appunto due a due: Et vocabit duodecim: et coepit eos mittere binos …(Mc 6, 7). 
Fra i tanti esempi possibili, ricordiamo come il Serafico Padre san Francesco mandasse i suoi frati in giro per il mondo, sempre in due: ogni frate aveva il suo comes, il compagno di viaggio. Anche Giotto, nel celebre ciclo della Basilica Superiore di Assisi, non manca mai di raffigurare, insieme a San Francesco, il frate che lo accompagnava.
Ogni coppia di perdùne è tradizionalmente chiamata “posta”. Con ogni probabilità il termine, che ci è consegnato oralmente sin dagli inizi, senza soluzione di continuità, fa riferimento al significato tradizionale di “fermata”, “sosta”, e per estensione, tutta quella parte di preghiera compresa fra due termini: una posta del Rosario, una posta, o stazione, della Via Crucis; la posta di un Pellegrinaggio era la statio liturgica all’inizio o durante il cammino.
E anche i nostri perdùne, nel loro pellegrinaggio, sosteranno più volte per adorare il SS.mo Sacramento solennemente custodito nei Repositori nelle chiese dove si sarà celebrata la Messa in Coena Domini: la Cattedrale di San Cataldo, San Domenico e San Giuseppe nel Centro Storico, e San Francesco da Paola, SS.mo Crocifisso e San Pasquale Baylon, nel Borgo umbertino. Il giro si concluderà poi per tutte le poste, con l’adorazione nella stessa Chiesa del Carmine.
È un rito, quello del Pellegrinaggio dei Confratelli del Carmine, in cui confluiscono due tradizioni diverse: il pellegrinaggio eucaristico raccomandato a tutti i fedeli nella sera del Giovedì Santo, giorno dell’istituzione dell’Eucaristia, e il tradizionale giro delle Sette Chiese che, ab immemorabili, i cristiani di Roma e i pellegrini dell’Urbe compivano recandosi in successione nelle quattro Basiliche Patriarcali oltre che in San Lorenzo fuori le mura, Santa Croce in Gerusalemme, e San Sebastiano. Il pellegrinaggio, caduto in disuso al termine del Medioevo, fu ripreso da San Filippo Neri nel 1552.

Perché sette chiese? Alla già ricchissima simbologia biblica e liturgica legata al numero sette, si aggiunge un particolare legato alla passione del Signore: secondo i racconti evangelici, erano sette i viaggi compiuti da Gesù fra il Giovedì e il Venerdì Santo: dal cenacolo al Getsemani, dal Getsemani alla casa di Anna, poi alla casa di Caifa, da questa al palazzo di Pilato, da qui a quello di Erode, poi ancora da Erode a Pilato, e per finire dal palazzo di Pilato al Calvario. Sette dunque le “poste” di questo cammino romano che, ben presto i Sommi Pontefici dotarono di speciali indulgenze per i pellegrini che lo avessero compiuto devotamente. Le stesse indulgenze che il beato papa Pio IX, nel 1875, volle estendere proprio ai nostri Confratelli del Carmine, come se anche loro compissero, qui a Taranto, il giro delle Sette Chiese.

E che i nostri perdùne siano dei pellegrini “speciali”, pellegrini a tutti gli effetti, lo capiamo proprio da alcuni particolari con cui si offrono alla nostra vista. Nell’abito di rito infatti troviamo degli elementi che appartengono decisamente alla tradizione del Carmelo: lo Scapolare, la mozzetta dello stesso colore della “cappa” del Prim’Ordine Carmelitano, il cingolo nero pendente, i piedi scalzi, secondo la riforma teresiana del Carmelo che adotta lo scalzismo sull’esempio della riforma francescana di San Pietro d’Alcantara. E troviamo anche elementi che riconducono invece alla tradizione medievale dei pellegrinaggi: il cappello a falde larghe e il bordone, dapprima simboli, poi considerati vere e proprie insegne da imporre, in una speciale cerimonia, ai pellegrini che intraprendevano il viaggio: i palmieri che si recavano a Gerusalemme e che sul petto o sul cappello aggiungevano una palma di Gerico o un ramo d’ulivo, i romei che si recavano a Roma, caratterizzati dalle chiavi di San Pietro o da una Veronica o ancora dalle medaglie con l’immagine degli Apostoli – a proposito, questa usanza dei romei di portare le medaglie appese alla cintola non sarà forse all’origine dei nostri Rosari ricchi di medaglie? – e infine gli Jacopei o peregrini veri e propri che si recavano al sepolcro di San Giacomo a Compostela e che appuntavano al petto una conchiglia di San Giacomo. 
I nostri perdùne sono pellegrini per le nostre strade, e dei pellegrini medievali vestono ancora oggi le insegne. Ma sono anche Confratelli che, come gli altri fedeli, si recano in visita al Santissimo Sacramento custodito negli altari della Reposizione, quelli che una lunghissima tradizione ci ha abituato a chiamare “Sepolcri”. Oggi si preferisce la più corretta dicitura di Repositori, ma ancora fino alla riforma dell’Ordo liturgico, dopo il Concilio Vaticano II, anche i libri ufficiali di liturgia spiegavano che gli altari della Reposizione ricordavano anche il Sepolcro del Signore. 
Forse all’origine della dicitura “sepolcro” c’era un ricordo, un’esperienza portata in occidente proprio dai palmieri: nella Basilica di Gerusalemme il SS.mo Sacramento dopo la Messa del Giovedì Santo veniva “riposto” o, come si diceva “sepolto”, proprio nel Santo Sepolcro del Signore. Si deve poi all’intuizione di grandi uomini di fede vissuti tutti nel ‘500 come il ravennate don Antonio Bellotti, il cappuccino padre Giuseppe da Ferno, l’eremita fra Buono da Cremona e soprattutto il suo amico e fondatore dei Barnabiti, Sant’Antonio Maria Zaccaria, l’idea di prolungare l’adorazione per almeno 40 ore, quante – secondo il computo di Sant’Agostino – il corpo di Gesù aveva trascorso nella nuda terra, ed ecco ancora un riferimento al Sepolcro. Ben presto i gesuiti “sdoppiarono” questa tradizione, accostando all’adorazione del Giovedì Santo, quella delle Quarantore negli ultimi giorni di carnevale, le stesse Quarantore, negli stessi giorni, che ancor oggi proprio i nostri Confratelli del Carmine, compiono con devozione e grande partecipazione, quasi come un anticipo del Giovedì Santo.

Un universo di simboli, un carico prezioso di storia sacra, devozioni e tradizioni: ecco cosa rappresentano i nostri perdùne, cosa significano e cosa esprimono nei loro gesti, nei loro abiti, nelle loro movenze che vengono da un lontano passato, e, dopo aver scavalcato nei secoli le mode, i materialismi e i secolarismi di ogni colore, continuano a parlare ancora forte ai cuori dei fedeli nel nostro presente.

lunedì 27 gennaio 2014

Santità Carmelitana: il Beato Ciriaco Elia Chavara

Olga Galeone



Il Beato Ciriaco (Kuriakose) Elias Chavara morì il 3 gennaio 1871 nello stato del Kerala, in India, lasciando una traccia indelebile nel Cristianesimo locale. Fu proclamato beato da Sua Santità Giovanni Paolo II l'8 febbraio 1986. Le sue spoglie sono state traslate nella cappella del monastero di San Giuseppe a Mannanam, il quale è diventato sede di pellegrinaggio di migliaia di fedeli, specialmente durante la festività dedicata al Beato Chavara, che viene celebrata con grande solennità e devozione ogni anno dal 26 dicembre al 3 gennaio.

Foto 1
Nato l'8 febbraio in un piccolo villaggio del Kerala in una famiglia cristiana di rito siro-malabarico, dopo aver studiato lingue e scienze, Ciriaco scelse di seguire la sua vocazione ed entrò in seminario. Ordinato sacerdote nel 1829 svolse per un breve periodo il ministero pastorale, ma tornò presto in seminario per insegnare. Lì iniziò a collaborare con altri due sacerdoti, Tommaso Palackal e Tommaso Porukara, alla fondazione della prima congregazione indiana, i "Carmelitani di Maria Immacolata", istituzione religiosa maschile della chiesa cattolica siro-malabarica. Il nome originale era "Congregazione dei Servi di Maria Immacolata del Monte Carmelo". Il primo monastero fu stabilito nel 1831 e la congregazione fu approvata canonicamente l'8 dicembre 1855. Il Beato Chavara, unico sopravvissuto dei fondatori, fu nominato superiore della congregazione. Nel 1860 venne affiliata all'Ordine Carmelitano e i suoi membri iniziarono ad usare anche il titolo di Terziari Carmelitani Scalzi.

Il 13 febbraio 1866 il Beato Chavara, insieme al carmelitano italiano padre Leopoldo Beccaro, fondò anche la prima congregazione religiosa indiana femminile, le Suore della Madre del Carmelo. Credendo fermamente nello sviluppo intellettuale delle donne come primo passo verso la loro emancipazione sociale, introdusse il sistema chiamato "Una scuola accanto ad ogni chiesa", che con grande successo rese disponibile l'educazione scolastica gratuita per tutti, incluse le donne e i più poveri.
L'opera del Beato Chavara non si ferma qui, fondò la prima scuola cattolica di sanscrito ed il primo giornale stampato cattolico dell'India. Dal punto di vista spirituale fu pure un innovatore: introdusse per primo in India diverse pratiche devozionali già adottate dalla Chiesa in occidente, come la Via Crucis e l'adorazione eucaristica delle Quarantore

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Per comprendere l'impatto che ha avuto il Beato Chavara localmente basti pensare che il 20 dicembre 1987 il presidente dell'India Venkitaraman rilasciò un francobollo commemorativo con il suo volto, l'immagine di un uomo cristiano in un paese in cui il Cristianesimo è la terza religione con circa 25 milioni di fedeli, poco più del 2% della popolazione. Secondo alcuni studiosi il Cristianesimo fu portato in India dall'apostolo Tommaso che visitò il Kerala nel 52 d.C. per evangelizzare gli insediamenti ebraici lì presenti e convertendo anche i locali. Sebbene questa teoria non sia condivisa da tutti, è consenso generale che il Cristianesimo in India era già ben stabilito dal VI sec. d.C., prima che alcune nazioni europee fossero state cristianizzate. La maggior parte dei cristiani in India sono cattolici di tradizione latina, convertiti dai portoghesi prima e poi da gesuiti italiani e irlandesi. Lo stato del Kerala, che ha dato i natali al Beato Chevara, è la culla del Cristianesimo di San Tommaso, oggi diviso in diverse chiese e tradizioni. I cristiani hanno avuto un rapporto pacifico con gli indù e i musulmani, che costituiscono le due principali religioni dell'India, fino all'avvento del colonialismo europeo a partire dal 1500 e della conseguente massiccia attività missionaria, che hanno esacerbato le differenze etniche e religiose. Negli anni recenti i cristiani, gli indù e i musulmani convivono più pacificamente in alcuni stati meridionali ed occidentali dell'India, mentre il nord e la parte orientale del paese restano zone piuttosto calde. Detto ciò, è però errato pensare che gli indiani siano il popolo più religiosamente intollerante; al contrario, non è raro vedere un indù pregare in chiese cristiane o in moschee musulmane, giacché credono che esista un unico Dio creatore. Inoltre per ben quattro volte è stata eletta all'unanimità come presidente dell'Indian National Congress una donna italiana di religione cattolica, Sonia Maino Gandhi. In un paese di grandi contrasti e grandi cambiamenti, figure cristiane come il Beato Chavara rappresentano il punto di forza di un futuro in cui saranno rispettati il dialogo, la giustizia e l'armonia.


Foto 1: Il 22 maggio 2013 in Vaticano il Priore generale della congregazione dei Carmelitani di Maria Immacolata dona a Papa Francesco una scultura in legno del Beato Chavara (credito CMIglobal)
Foto 2: Francobollo commemorativo con il volto del Beato Chavara (credito: Desipedia)

domenica 26 gennaio 2014

Il Giovedì e le emozioni di Settimana Santa

Valeria Malknecht

La nostra Settimana Santa dura trecentosessantacinque giorni.
Il calendario la circoscrive a poche ore dell’anno, ma per noi dura molto di più.
La Settimana Santa si prepara.
E, per gli addetti ai lavori, preparare significa occuparsi di tutto quello che ruota attorno alla processione e che deve essere organizzato in concreto: pensare alle bande, decidere il tema del “Sepolcro” e curarne la realizzazione, scegliere l’immagine adatta a diventare il manifesto annuale e  tanto altro ancora.
Ma cosa ancora più importate è che alla Settimana Santa ci si prepara.
Ognuno ovviamente cura la propria preparazione spirituale come vuole e come può, ma c’è un appuntamento durante tutto l’anno che da un lato, ci offre un’opportunità di preghiera; dall’altro, diciamocelo, ci aiuta a sopportare l’attesa.

Ed è così che ci ritroviamo in Chiesa insieme.
All’organo qualcuno rispolvera le note di qualche marcia, anche se è solo gennaio.
Qualcun altro prepara la troccola e si premura che tutto sia in ordine.
I primi banchi sono quelli di solito più pieni e molti restano in piedi vicino all’organo, per assicurarsi di vedere per bene ciò che sta per accadere.

È la cerimonia del Cristo Mortoche si tiene ogni giovedì sera alle 20.30 alla chiesa del Carmine.
Si tratta di una breve ed intima funzione che racchiude in sé ciò che per noi è la Settimana Santa: un giusto connubio fra fede e tradizione.
Infatti, durante la prima parte di questa cerimonia, il sacerdote medita su un passo delle Sacre Scritture (quest’anno è stata scelta la Seconda lettera di San Paolo Apostolo ai Corinzi), le attualizza e invita a riflettere su come poterle mettere in pratica nella nostra vita di tutti i giorni.
A questo proposito, ci propone un fioretto da fare per l’indomani ed in questo modo ci ricorda con quale animo dovremo vivere il tempo di quaresima ed il significato dei venerdì che precedono il Venerdì Santo.

Terminato questo momento di riflessione, ecco che la preghiera si veste di tradizione.
I nostri occhi sono rivolti all’altare che si trova al lato sinistro della Chiesa, proprio davanti a quello della Titolare.
Ai piedi di quell’altare, dietro ad una tenda ricamata d’oro, riposa il simulacro del Cristo Morto e, accanto a Lui, su di un cuscino rosso di velluto, c’è la Troccola.
Ogni giovedì, un confratello ed una consorella scelti per estrazione, hanno il compito di accompagnare il momento di preghiera: il confratello suonerà la troccola e la consorella accenderà e candele e scoprirà piano piano il prezioso simulacro.

Il silenzio verrà finalmente interrotto da quell’inconfondibile suono. Non a caso uso il termine  “finalmente” perché tutti attendiamo di sentirlo.
È un suono carico di significati: è quello che apre la Processione dei Misteri così come è il suono di liberazione, di gioia e di orgoglio che segue il momento dell’aggiudicazione della troccola ed attraverso cui il confratello realizzerà davvero di aver esaudito un sogno. Quel legno e quei battenti gli daranno il ruolo di Troccolante e per qualche ora diventeranno il naturale prolungamento del suo braccio. L’uomo e la troccola saranno l’uno strumento dell’altro lungo il cammino.

Ebbene quel suono, durante la funzione del Cristo Morto del giovedì, diventa più quotidiano e quello strumento così ambito, più accessibile.
Perché per pochi minuti, ogni giovedì, ciascun confratello potrà provare l’emozione di essere un po’ il troccolante e di generare quel suono tanto caratteristico.
Ed ogni giovedì ciascuna consorella, potrà avere l’onore di essere così vicina a quella statua, tanto da riuscire a guardarla negli occhi. E chi quella statua l’ha vista da vicino, sa bene che gli occhi del Cristo sono solo socchiusi...

Lo scorso giovedì, quel confratello era mio padre e quella consorella ero io.
C’ero io accanto a quella statua e, a pochi passi da me, a suonare la troccola c’era mio padre.
Un’emozione dentro l’altra, difficili da descrivere.
È stato un momento di preghiera reso ancora più intenso, perché ai piedi di quel Cristo c’erano un padre ed una figlia legati nel sangue a quel suono e a quel simulacro.
La persona che da piccola mi aveva fatto conoscere i nostri Riti e che mi aveva trasmesso l’amore ed il rispetto per le nostre tradizioni, era lì con me ed insieme le abbiamo fatte vivere.
Quello che molto tempo fa era stato un giovane padre che teneva per mano una bimba incuriosita ed un po’ intimorita da quegli strani incappucciati, ora è un confratello che continua a tenere per mano   nella vita una consorella, non più tanto bimba.
Magari non riusciremo mai a nazzicare insieme, è vero.
Ma l’emozione provata lo scorso giovedì, quella sì che l’abbiamo vissuta, insieme.

La troccola ha smesso di suonare ed ecco, è tornato il silenzio: ognuno rivolgerà i propri pensieri e la propria preghiera a quell’immagine e tornerà a casa con quel suono e quell’immagine nella testa.
Ogni giovedì sera, nella chiesa del Carmine, riviviamo uno scorcio di quella che sarà la nostra Settimana Santa.
Lo scorso giovedì, però, nessuno me ne voglia, l’ho sentito particolarmente mio perché il suono di quella troccola è stato davvero familiare.
Anche questo è la Cerimonia del Cristo Morto del giovedì.

Anche questo è Settimana Santa.

giovedì 23 gennaio 2014

La nostra storia: alle origini del Carmelo

Giovanni Schinaia


Il Monte Carmelo
Fra la fine 1192 e il 1209, un gruppo di pellegrini in Terra Santa decise di ritirarsi in preghiera eremitica sulla cima del Monte Carmelo. Probabilmente si trattava di italiani, reduci dalle crociate. Si chiamarono "Eremiti del Carmelo" (o "Eremiti Latini") e si situarono sulla principale via di pellegrinaggio che conduceva da Akko a Cesarea. Abbiamo una testimonianza diretta già all’inizio del XIII sec. in un opuscolo sugli itinerari e pellegrinaggi in Terra Santa: un anonimo pellegrino ci parla di una "molto bella e piccola chiesa di nostra Signora che gli eremiti latini, chiamati "Fratelli del Carmelo" avevano nel WADI 'AIN ES-SIAH.

· Perché un monte?
· Perché il Carmelo?

In molte religioni il monte viene considerato come il punto in cui il cielo incontra la terra. Molti paesi hanno il loro monte santo, dove abitano gli dei, da dove viene la salvezza. Anche la Bibbia conserva queste credenze e le purifica: Jahve è adorato come il Dio dei monti e delle valli (El-Shaddaj in ebraico). Alcuni monti nell’Antico Testamento furono riservati ad una funzione duratura e gloriosa: pensiamo al monte di Dio, l’Horeb, luogo della rivelazione, luogo della legge; pensiamo al monte Sion, ombelico del mondo, come lo definisce il profeta Ezechiele. E pensiamo quindi al Monte Carmelo, luogo della predicazione del più celebre fra i profeti, Elia, e del suo discepolo, Eliseo.

“Carmelo” vuol dire il giardino fiorito di Dio , e come un giardino doveva davvero apparire a chi vi giungeva dopo aver attraversato il deserto, o a chi giungeva in Palestina provenendo dal mare. Il Carmelo è il luogo della vicenda biblica del profeta Elia. In un momento di grande confusione politica e religiosa della storia di Israele, Elia rappresenta un sicuro punto di riferimento. È colui che restaura l’alleanza con Dio contro il culto dilagante di Baal; è il profeta che manifesta l’intervento strepitoso di Dio sul Carmelo: prima il fuoco che brucia il sacrificio, poi l’acqua, la nuvoletta, “come una mano d’uomo” che sale dal mare e porta la pioggia a dirotto. La vicenda di Elia possiamo leggerla nel Primo Libro dei Re. Nella tradizione biblica Elia è il profeta simile al fuoco: leggiamo nel Siracide (48, 1):

“Sorse il profeta Elia come un fuoco, / la sua parola bruciava come fiaccola (…)
Come ti rendesti famoso, Elia, con i prodigi! / E chi può vantarsi di esserti uguale? (…)
Fosti assunto in un turbine di fuoco / su un carro di cavalli di fuoco
designato a rimproverare i tempi futuri”

Ma oltre ad essere il profeta del fuoco, Elia è colui che incontra Dio nel silenzio e nella preghiera: (1Re 19, 11-14): 

"Ci fu un vento impetuoso e gagliardo da spaccare i monti e spezzare le rocce davanti al Signore, ma il Signore non era nel vento. Dopo il vento ci fu un terremoto, ma il Signore non era nel terremoto. Dopo il terremoto ci fu un fuoco, ma il Signore non era nel fuoco. Dopo il fuoco ci fu il mormorio di un vento leggero. Come l’udì, Elia si coprì il volto col mantello, uscì e si fermò all’ingresso della caverna. Ed ecco udì una voce che gli diceva: “Che fai qui, Elia?”. Egli rispose: “Sono pieno di zelo, per il Signore Dio degli eserciti…”


La Regula Primitiva

S. Alberto Avogadro
Fu appunto seguendo l’esempio, il carisma di Elia, che questi crociati decisero di ritirarsi sul Carmelo. Ben presto sentirono l’esigenza di una regola e si rivolsero all’allora patriarca di Gerusalemme, S. Alberto Avogadro. Questi redasse una norma di vita fra il 1206 e il 1214. La Regola carmelitana afferma che è fondamentale: "vivere nell'ossequio di Gesù Cristo e servire fedelmente a Lui con cuore puro e con buona coscienza" [n.2].
Per vivere sulle orme di Gesù Cristo i Carmelitani si impegnano più specificamente a: 

- sviluppare la dimensione contemplativa dell'essere umano aprendosi al dialogo con Dio
- trattarsi come fratelli, con piena carità
- meditare giorno e notte la Parola del Signore
- pregare insieme o soli più volte al giorno
- celebrare ogni giorno l'eucaristia
- lavorare con le proprie mani, come Paolo apostolo
- purificarsi da ogni traccia di male
- vivere da poveri, mettendo in comune i pochi beni
- amare la Chiesa e tutte le genti
- conformare la propia volontà con quella di Dio ricercata nella fede con il dialogo e con il discernimento.

La Regola carmelitana è la più breve fra le Regole note, è composta quasi esclusivamente di precetti biblici. Ancora oggi è ricca di ispirazione per la vita.

mercoledì 22 gennaio 2014

"Le segrete stanze"

 Salvatore Pace

Quanti di noi hanno percorso le scale che dall'anticamera della Sacrestia portano ai locali della "Congrega"?  Confratelli anziani e meno anziani, portatori di simboli o semplici amanti delle nostre Tradizioni, scalzi o con le immacolate calzature sormontate da coccarda, per una Processione o per una Messa. 
A Natale, a Pasqua, a Luglio quelle anguste scalinate sono state percorse negli anni da centinaia, migliaia di Confratelli e Consorelle e sono state testimoni di migliaia di eventi che hanno visto protagonista il nostro Sodalizio. Ma quanti di noi conoscono i "segreti" delle nostre stanze? 

Quanti di noi conoscono dove sono custoditi i nostri "beni"? Quanti di noi sanno dove per un intero anno "riposano" parrucche, basi, lumi, sdanghe, statue? Quanti di noi immersi in un percorso virtuale saprebbero orientarsi nelle nostre "segrete stanze"? Queste due righe spero possano essere di aiuto per chi mai ha pensato ad approfondire questo argomento, per chi, lontano dalla nostra città, mai potrà aggirarsi, fisicamente, nei locali della Congrega ma con un pò di curiosità, ci passeggerà virtualmente, o per chi, ha sempre desiderato sapere qualcosa in più sulle "nostre cose" ma, forse per una forma di rispetto, non ha mai bussato alla nostra segreteria per chiederne e chiacchierarne.

Salita la prima rampa di scale si hanno due opzioni, tirar dritto, sino al Salone dedicato alla memoria del Priore Avv.Cosimo Solito o girare a destra verso la Segreteria e le altre scale. Immaginiamo di entrare nel grande Salone, qui la nostra Confraternita vive i momenti di maggiore unione, a parte le Assemblee che, per ragioni di spazio, vengono tenute all'interno della Chiesa.

Qui si riunisce il Consiglio di Amministrazione, ci incontriamo per gli i momenti conviviali, sono organizzati i seggi elettorali in occasione delle elezioni, il Salone è quello di rappresentanza che accoglie gli eventuali, graditi, ospiti del sodalizio e il Giovedì Santo accoglie al suo interno la Croce dei Misteri dove le Poste dirette al Pellegrinaggio effettuano l'abbraccio e la preghiera.

Rettangolare, affaccia su Piazza Giovanni XXIII, e sul lato sinistro ha due porticine la prima conduce, mediante una scala chiocciola, al tramezzo che può essere adibito a deposito o a "galleria" del salone stesso. Nelle mura della tromba della scala chiocciola vi sono alcuni ripostigli, all'interno di uno dei quali,per anni, troppi anni, trovò ricovero la nostra Vergine Addolorata, sistemata un pò "alla carlona" e che, trovataLa in pietose condizioni, la lungimiranza del Priore Nicola Caputo e del suo consiglio di Amministrazione volle collocare dal 1999 in una nicchia per Lei costruita ed a Lei dedicata all'interno della Chiesa dopo un attento restauro. 
Oggi in quel ripostiglio vi sono addobbi e materiale utilizzato per lavori in Chiesa e che sicuramente trovano, in tali bugigattoli, più idonea collocazione che un Simulacro tanto antico quanto Venerato.

la porticina di accesso in cantoria
L'altra porticina, sita nella parte finale del salone, conduce in "cantoria", che è praticamente quel balcone in cui è collocato l'imponente organo della nostra Chiesa. A destra, prima dell'organo, vi è un'angusta stanzetta con l'armadio dove tra altri importanti "addobbi" è custodita la nostra Troccola nel suo scrigno in legno e che è coccolata e sistemata per un anno in attesa di essere tirata fuori la quinta domenica di Quaresima per l'Adorazione alla Croce.

Le pergamene 
Sulle pareti del salone tra vari quadri e fotografie trovano spazio le pergamene indicanti i Priori e i Padri Spirituali del Sodalizio che si sono succeduti negli anni e la pergamena recante i nomi dei donatori che nel 1969 permisero la collocazione del maestoso organo in cantoria, organo che è motivo di vanto per la nostra Chiesa. Alle spalle del tavolo destinato agli Amministratori o ai relatori per eventuali conferenze vi è un'imponente tendaggio color verde oliva sul quale campeggia un Crocifisso in legno.

Usciti dal Salone e percorsi i pochi scalini ci troviamo in Segreteria, da qualche anno protetta da una porta blindata, in cui campeggia la scrivania del segretario appunto, sormontata da due bordoni incrociati e dal quadro delle Quarant'ore con i Confratelli in Adorazione al SS Sacramento.Oggi il computer della nostra Confraternita fa compagnia ai registri ancora vergati a mano per i pagamenti delle quote annuali versate da tutti i Confratelli.

Nella stanza troviamo qualche sedia e un paio di poltrone che permettono a noi Confratelli di trascorrere insieme qualche minuto o qualche ora guardando in tv, mediante il lettore dvd, supporti relativi a cerimonie riguardanti i vari periodi dell'anno. Inutile dire che il pienone avviene, terminato il periodo natalizio, quando a ritmo continuo vengono mandate in visione Processioni dei Misteri dei vari anni e che non ci stancheremo mai di commentare e guardare tutti insieme. La segreteria affaccia su Via Ciro Giovinazzi e a sinistra del finestrone vi è la stanzetta archivio della nostra Congrega dove sono custoditi i faldoni, divisi per anni, con le pratiche relative ad ognuno di noi ed alle attività del Sodalizio. Ex voto e quadri a sfondo religioso adornano le pareti, unitamente ai "cartilli" sormontanti le Croci in processione donati dal Confratello Alessandro Liuzzi lo scorso anno. 

Se usciamo dalla Segreteria e prendiamo le scale a destra arriviamo al secondo piano dove si trova il primo dei saloni adibiti ad "oratorio" che nel gergo confraternale oltre ad indicare le stanze per pregare è la parola che indica le stanze dove ci si cambia per vestire l'abito di rito in occasione delle funzioni. Prima di entrare nella stanza, sul pianerottolo a sinistra, la nostra attenzione viene attratta da una porta in legno marrone, posta sul muro a destra, sollevata qualche metro al di sopra del pavimento e che sembrerebbe l'accesso ad una stanza sempre, rigorosamente chiusa.

Basi e sdanghe sistemate 
 Bene, non sembra, è una stanza, nonchè uno dei locali avvolti dall'aura di mistero. Al suo interno sono sistemate le basi, le sdanghe e la Croce della Sacra Sindone, i lumi e i cuscinetti, insomma la nostra Settimana Santa . Le basi sono sistemate lungo i muri di questo locale lungo e stretto senza finestra alcuna. Le sdanghe sono infilate per tutta la lunghezza della stanza in grosse staffe di ferro e credetemi, lì dentro, si respira odore di Processioni e si sente suono di Marce Funebri per tutto l'anno.La scaletta che permette l'accesso e l'apertura di quella porta provoca un "mal di pancia" emozionale, lì dentro c'e' quello che noi amiamo e sapere chiuse per un anno in quella stanza basi e sdanghe meticolosamente ordinate dai nostri solerti collaboratori è già di per se una sensazione di comprensibile eccitazione compresa solo da noi Confratelli.

 Passiamo alla stanza a sinistra, una stanza quadrata con il grande tavolo centrale e molte sedie disposte sui lati per permettere i confratelli di appoggiare valige ed abiti durante la vestizione. 
Il salone di secondo piano 
Qui sono collocati due imponenti armadi in legno scuro, sono anch'essi uno scrigno, al loro interno, infatti, vi sono Abiti, gli Scapolari del Consiglio di Amministrazione, la "coperta" del Cristo Morto, i Vestiti della Titolare e quelli dell'Addolorata e il solerte ufficio dell'Economo custodisce al suo interno gli abiti che sono in vendita a cura del Sodalizio. 



Ai muri della stanza vi è la collezione dei Manifesti celebrativi della Settimana Santa incorniciati ed affissi in ordine cronologico. 

Usciti dal salone saliamo l'ultima rampa di scale e portiamoci al terzo piano. A sinistra sul pianerottolo una piccola stanza con bagno , a destra un corridoio che porta al salone grande. Da poco tempo all'interno della stanza "piccola" a sinistra oltre alle consuete sedie che permettono ai Confratelli di cambiarsi d'abito e un piccolo bagno, vi è una porta che conduce al "laboratorio" dei collaboratori, una vera e propria officina dove nascono tutti i manufatti in legno che servono alle organizzazioni di "altari" , Processioni, Statue e Quadri e dove viene manutenzionato tutto ciò che serve all'organizzazione della Settimana Santa. 
Il laboratorio dei collaboratori 

Ricavato da un vecchio magazzino - deposito il laboratorio è organizzato nei minimi particolari finanche con un piccolo lettore CD che accompagna con i suoni delle pastorali o delle Marce Funebri il lavoro dei nostri Confratelli Collaboratori. 

Attraversato il corridoio a destra si arriva, dicevamo, nel grande salone. Sulla lunga parete di destra vi sono ampi finestroni e armadi a muro dove sono custodite immaginette e abitini e il materiale per l'allestimento del Presepe.

Il salone di terzo piano 
I finestroni affacciano sul terrazzo della Chiesa. Anche questo salone serve alla vestizione dei Confratelli e al suo interno, è collocata una statua bronzea raffigurante S.E. Mons. Guglielmo Motolese. Appena entrati sulla sinistra vi sono due armadi in legno, all'interno di uno dei quali trovano ricovero l'Angelo della Statua di Cristo all'Orto e il Cristo Risorto da poco tempo restaurato.
Gli armadi del salone a terzo piano 






Spero che questa mia breve passeggiata nei locali della Confraternita sia servita a chi è lontano per poter ripercorrere virtualmente locali frequentati e che per destini legati alla vita non si possono più visitare e a chi è vicino per potersi aggirare con occhi meno distratti, in occasioni di funzioni, vestizioni o anche per una semplice visita, nelle nostre "segrete stanze"
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