giovedì 26 febbraio 2015

San Gabriele dell'Addolorata

Luca Tegas

Nella giornata odierna, 27 febbraio, si ricorda San Gabriele dell’Addolorata, copatrono dell’Azione Cattolica e patrono della regione Abruzzo.

Il santo è oggi molto amato ed apprezzato tanto da rendere il luogo della sepoltura, nel Santuario di Isola, meta di pellegrinaggio per centinaia di migliaia di giovani. Ogni anno, a cento giorni dall’esame di maturità, migliaia di studenti da tutta Italia partecipano alla messa e pregano per il buon esito del proprio esame.

San Gabriele nacque ad Assisi nel marzo del 1838 con il nome di Francesco Possenti, undicesimo di tredici figli. Il padre era un personaggio importante e facoltoso che ebbe sempre a cuore l’educazione civile e religiosa dei propri figli.

La famiglia fu però ben presto colpita da un duro lutto: la morte della mamma Agnese a soli 38 anni. Francesco, che all’epoca aveva solo 4 anni, iniziò ad associare la figura materna a quella della Madonna. Quando recitava il rosario insieme al padre, il suo pensiero era rivolto alle sue due mamme e il piccolo iniziò a sviluppare una grande e tenera devozione verso la Vergine Maria.

Francesco crebbe con un carattere esuberante, molto socievole ed attento al proprio look. Recitò in qualche accademia e con buoni risultati, ma non disdegnava le letture di romanzi e la buona musica. Il tutto lo disegnava come un ragazzo destinato a grandi cose nella società dell’epoca, ma due eventi cambiarono la sua vita. A scuotere profondamente le sue convinzioni fu inizialmente la perdita, oltre che di due fratelli, della sorella maggiore Maria Luisa a cui era fortemente legato. Francesco iniziò a meditare l’abbandono della vita di società per dedicarsi a quella religiosa.

Ma è qualcosa di ancor più diretto a sconvolgergli la vita: il 22 agosto del 1856 a Spoleto, nell’ultimo giorno dell’ottava dell’Assunzione, si celebrava una grande processione. Quando Francesco incrociò lo sguardo della Madonna senti un fuoco dolcissimo divampare dentro e udì distintamente una voce: “Francesco che stai a fare nel mondo? Segui la tua vocazione”.

 

Francesco Possenti decise allora di entrare nel noviziato dei Passionisti, a Loreto, contro il parere del padre e di prendere il nome di Gabriele di Maria Addolorata. La vita religiosa non lo spaventò e si adattò ben presto ai ritmi e alle regole della Congregazione. Ma ben presto la sua salute iniziò a deteriorarsi, anche per via delle pesanti mortificazioni che lo stesso decise di infliggersi oltre alla rigida vita della comunità e soli 24 anni la tubercolosi polmonare lo condurrà alla morte.

Il processo di canonizzazione fu rapido per via della devozione che i conterranei avevano nei confronti del giovane e per il bisogno che la Chiesa Cattolica aveva in quel tempo di avere un modello giovanile di santità coraggiosa.

San Gabriele dell’Addolorata è ancor oggi un modello e una guida per molti giovani.



mercoledì 25 febbraio 2015

Il mio pellegrinaggio

Un bell'articolo dello scorso anno che val la pena riproporre 

Claudio Capraro


Un giovedì Santo differente da quello degli ultimi anni. In pellegrinaggio agli altari della Reposizione, ma con le scarpe ai piedi ed a volto scoperto.

Il mio personalissimo giro è cominciato da San Francesco di Paola, nel momento esatto in cui iniziava la celebrazione della Messa in Coena Domini. Subito, entrando ho potuto vedere l’allestimento dell’altare: un grande faro con al centro il Santissimo e dal quale faro si irradiavano raggi. Un faro verso il quale volgere lo sguardo e da non perdere mai di vista; che ci indica sempre la strada verso la salvezza, una luce amica per chi va per mare o per terra, anche oggi nell’era della navigazione strumentale e una luce amica nella nostra esistenza.

Era ancora presto e al termine della funzione, i pellegrini a piedi nudi li ho potuti incontrare solo a metà di via Di Palma e guardando i loro camici svolazzanti al vento, le loro mani che serravano i bordoni, i medaglieri che sbattevano sulle gambe ho rallentato il passo accanto alle poste che percorrevano la strada in senso contrario al mio. Mi sono mancati quei momenti, quello stare spalla a spalla con il mio compagno.

Proseguendo sono arrivato al Santuario del Santissimo Crocifisso, luogo fondamentale nella mia vita; qui la funzione era cominciata più tardi rispetto a San Francesco, e il Sepolcro era rappresentato da un’alta torre al centro della quale trovava posto il Santissimo Sacramento.

Dopo l’abbondante pioggia del mattino, il cielo si era aperto, ma il vento soffiava forte, lo si vedeva già da lontano guardando il tricolore a mezz’asta in segno di lutto sul castello aragonese, e per attraversare il ponte girevole bisognava coprirsi bene, ma una volta superate le colonne doriche ci si poteva riparare in via Duomo, dove dall’altare della chiesa di San Michele la Vergine Immacolata guardava e benediceva i suoi cittadini che Le transitavano davanti. E riecco loro, in fila indiana, diretti alla Cattedrale. Dai balconi, dai negozi, ogni cento metri o poco più, delle casse stereo inondavano la via Maggiore delle note delle marce funebri e loro, spalla contro spalla lì a nazzicarsi.



Al Duomo la messa dell’Arcivescovo era ancora in corso e ci si poteva attardare un po’. Il segnale che la funzione fosse terminata lo si è avuto quando incontro è arrivata la processione formata dai confratelli e le consorelle della Confraternita di Santa Maria di Costantinopoli sotto il titolo dei Santi Medici Cosma e Damiano. La troccola davanti a tutti e dopo i confratelli in mozzetta verde e le consorelle con l’abitino, il Santissimo condotto dal Sacerdote e protetto dall’ombrellino; dietro i fedeli.

La prima posta città vecchia ha potuto fare il suo ingresso in Cattedrale, mentre la folla che premeva sulla scalinata che porta al Cappellone veniva fatta aprire per poter far passare i pellegrini del Carmine. L’odore della cera delle candele, l’inteso profumo di fiori freschissimi e l’incenso da poco asperso, conferivamo come ogni anno una fragranza inconfondibile a quel luogo. Sull’altare il Santissimo in primo piano era ciò che gli occhi prima di ogni cosa potevano scorgere.

Uscito dal Duomo e proseguendo nel cammino, eccomi a San Domenico. Si stava facendo buio e sul ballatoio il vento soffiava freddo da mar grande. Qui l’altare della Reposizione, risaltava per il color rosso vermiglio dei velluti; al centro l’ostensorio ornato da una raggiera d’oro, le candele, i fiori ed i confratelli dell’Addolorata di picchetto. Alla destra, pronta per il pellegrinaggio alla ricerca del Suo Figlio, la Mamma Addolorata riceveva le preghiere dei fedeli.

Le poste del Carmine intanto salivano dalla scalinata a destra e scendevano da quella opposta, mentre i fedeli stavano già accaparrandosi i posti migliori sul pendio. Giù fino a piazza Fontana, dove ho potuto accorgermi che fino a quel punto non avevo incontrato bancarelle varie: di carne, di bevande o di altro. E con passo più lento che rispetto a quando ero partito da via Regina Elena, eccomi arrivato a San Giuseppe: schiere di angeli in adorazione del Santissimo in una immagine classica. I banchi erano stati eliminati in modo che i perdoni ed i fedeli avessero maggiore spazio.

Terminato il giro in città vecchia e lasciando alle spalle le poste di confratelli, dopo essere passato a rendere visita alla casa natale di Sant’Egidio e aver riattraversato il ponte, eccomi a San Pasquale Baylon. Il sepolcro era stato allestito non sull’altare maggiore, ma a sinistra dello stesso; campeggiavano il bianco ed il gialle mentre due angeli adoravano l’ostensorio posto su delle nuvole.

In piazza Carmine, il vento soffiava forte attraverso via Massari. La banda suonava e in attesa delle poste dei due pellegrinaggi; le poste fisse erano in adorazione al Santissimo posto sulla più grande di tre colonne che componevano la scenografia. Una delle altre due colonne era quella alla quale è legato Gesù e che sarebbe uscita in processione il giorno successivo. Nei giorni passati più di qualche curioso si era chiesto dopo l’Ecce Homo e Cristo all’orto, se e quale statua sarebbe stata posta quest’anno nel sepolcro. Le domande avevano trovato una risposta.


Erano trascorse oltre sei ore da quando era cominciato il mio “pellegrinaggio” 2014. Potevo riprendere a ritroso la strada di casa per andare a riposarmi in attesa di ciò che mi aspettava il giorno successivo. Con le scarpe ai piedi e con un giaccone a ripararmi dal freddo, avevo comunque trascorso delle ore in compagnia dei miei fratelli. Osservandoli, sistemando loro ora lo scapolare, ora la mozzetta. Liberando la strada davanti a loro da qualche piccolo ostacolo che sotto i piedi nudi può diventare parecchio fastidioso. Sentendomi richiamare da qualche posta con il bordone fatto urtare per terra per un saluto ed un augurio.

martedì 24 febbraio 2015

Ecce Homo

Luciachiara Palumbo

Allora i soldati del governatore condussero Gesù nel pretorio e convocarono intorno a lui tutta la coorte. Spogliatolo, gli gettarono addosso un manto scarlatto e, intrecciata una corona di spine, gliela posero sul capo, con una canna nella destra; poi, mentre gli si inginocchiarono davanti, lo schernivano: ‘Salve, re dei Giudei!’ ".

A capo chino nell'ombra del portone si incammina lentamente verso l'uscita.

Ecco la seconda delle statue del Manzo, che arrivarono in treno nel 1901 giusto in tempo per essere portate in processione e che suscitarono tanta meraviglia e ammirazione nei confratelli e nei fedeli per la magnifica attenzione ai particolari. 

 Appare vergognarsi il Salvatore ma più che vergogna è la paura di essere giudicato, di essere schernito, di essere deriso.

Gli occhi volti a terra non mostrano rassegnazione, non mostrano sconfitta. Medita e serba tutto ciò che accade e quell'intima preghiera col Padre non cessa nonostante non cerchi più il suo volto glorioso nei cieli.

Nella piazza davanti agli occhi di tutti si ode "Ecco l'uomo". Ecco l'umanità del figlio di Dio in tutta la sua completezza. Ma in sé per sé anche questa presentazione è un insulto. Si tenta così di esaltare l'impossibilità di un essere divino che corpo umano. 

Un re uomo, un re guerriero, un re superbo, un re ambizioso, il Re dei giudei non Cristo, non un re buono o il re dell'universo. 

Quel manto rosso che poco ricopre la sua nudità, quello scettro umile creato con una canna e quella regale corona di spine… Ecco l'uomo… Lo sguardo in basso allora che valore ha? Il bel Gesù lo sa, il mondo non sta comprendendo… "O Padre perdonali perché non sanno quello che fanno"

lunedì 23 febbraio 2015

Breve cronaca della prima via crucis .

Luca Tegas

Prima domenica di quaresima. Prima Via Crucis. Prima adorazione della croce per i confratelli del Carmine.

Da qualche giorno è ormai quaresima. È iniziata ufficialmente l’attesa. Quell’attesa che durante l’anno, nei momenti più inaspettati, illumina i nostri pensieri. Quell’attesa che durante la quaresima scandisce le nostre giornate, le nostre preghiere, le nostre speranze.


Domenica 22 febbraio nella Chiesa del Carmine si é iniziato a respirare aria di “Settimana Santa”.

Subito dopo la celebrazione eucaristica delle 17:30 ha avuto inizio la prima solenne Via Crucis del 2015. Uno dei momenti più sentiti ed attesi del cammino penitenziale quaresimale, un’occasione di preghiera e di riflessione interiore per tutti i fedeli.

Tre confratelli in abito di rito, Ruggero Calabrese che ha sorretto il Crocifisso, Salvatore Foti e Carmine Cianci hanno ripercorso le 14 stazioni che caratterizzano la Passione di Gesù, dalla condanna a morte, passando per le tre cadute, fino ad arrivare alla deposizione del sepolcro. Le letture del confratello Antonio Russo e della consorella Alessandra D’Arcangelo hanno poi scandito il passaggio da una stazione all’altra.

Ogni stazione é stata, inoltre, accompagnata dai canti, eseguiti in maniera magistrale e suggestiva, dal coro della nostra chiesa e dalle note dell’organo.


Al termine della Via Crucis, nel rispetto di una tradizione che si sta consolidando negli anni, dopo aver chiuso il portone della chiesa, i confratelli hanno dato vita al rito dell’Adorazione della Croce.

Le coppie di “perdune”, spoglie dell’abito di rito, con la corona di spine in testa e il bordone, hanno percorso la navata centrale della chiesa inginocchiandosi due volte lungo il cammino fino a giungere al crocifisso posto sotto l’altare dove, i confratelli, dopo essersi genuflessi una terza volta, hanno baciato il Cristo crocifisso.

Inutile negarlo: la prima nazzicata era attesa da tutti e poter nazzicare tra quelle mura tanto care, al riparo dagli occhi di chi a volte oltre che a giudicare, disprezza, è sempre un’emozione nuova e unica. É ancor più emozionate compiere il rito sotto gli occhi materni della Vergine Addolorata, bellissima sul suo altare, illuminata appena dalle luci delle candele.

FOTO PEPPE CARUCCI 

T'adoriamo....

Salvatore Pace

Ecco..ci siamo...

Dopo le emozioni della "Desolata", al termine delle coinvolgenti Stazioni della Via Crucis, arriva la prima Adorazione alla Croce.

Il cuore inizia a battere più forte, ognuno di noi sa che in Cappellina, riposte in uno scatolone che si risveglia dopo un anno di letargo, le corone sono pronte ad essere calzate, i cartoni alti e bianchi che contengono le "mazze" sono pronti ad essere aperti e l'organista, per la prima volta nell'anno, è pronto a far scorrere gli spartiti delle nostre marce funebri..insomma è Quaresima, è Sumana Sanda!

Iniziano a notarsi i gruppi storici, quelli meno anziani, le coppie di sempre e quelle più giovani si dispongono per la breve "nazzicata", le facce si fanno serie, lo sguardo viene rivolto alla Croce, imponente, maestosa che campeggia sull'Altare Maggiore.

Mentre si avanza al suono di "Cagnottisti", "Buzzacchino" o "Vella", una preghiera nel cuore di ognuno, una persona cara che soffre, un dolore appena subito ed ancora lancinante, un pensiero ad un angioletto che, da pochi giorni,  veglia dall'alto sul nostro percorso terreno, una preghiera di speranza per la prossima Settimana Santa - perchè no? - e si giunge lì, ai piedi della Croce in legno nero adagiata sull'altare.

Il bacio a quel legno sofferto, la genuflessione e la prima se n'ha sciut , quindi dopo la preghiera collettiva, purtroppo, per pochi intimi e la benedizione di Don Marco si torna a casa con l'odore dei riti addosso,

Qualche riflessione.......

..ieri tra mazze, corone, nazzecate e marce era veramente forte la mancanza di Peppe Albano, quella era "roba sua", e non vederlo scorrazzare tra Sagrestia, Cappellina e Chiesa faceva veramente strano.

Peppe, sono sicuro, ci guarda da lassù e ieri avrà guidato le mani e i cuori dei nuovi collaboratori che hanno organizzato la Prima di Quaresima.

Adesso un invito ai miei confratelli giovani o novizi, vedervi partecipare all'Adorazione tra le ultime poste addirittura a ridosso dell'Amministrazione non è un bel vedere per la Confraternita.

Ci sono regole non scritte e Tradizioni - maiuscolo voluto - che vanno rispettate a prescindere e allora ragazzi un pò di sacrificio e arrivate a prendere mazze e corone in tempo, lasciate che, come da sempre, le ultime poste siano composte almeno da un Confratello anziano, queste sono le cose belle dei Riti, arriverà il vostro tempo e sarà per voi, fonte di orgoglio, aver trascorso tanto tempo tra Scapolari e Mozzette tanto, anche, da poter uscire vicino al Consiglio per l'Adorazione alla Croce.

Buona Quaresima fratelli miei

giovedì 19 febbraio 2015

Adorazione nelle Solenni Quarant'ore


Antonino Russo 

Sono le sette e mezza del mattino, la città si è svegliata sotto una pioggia leggera. Raccolgo le ultime cose e raggiungo la Chiesa del Carmine.

Ad accogliermi c’è Nico Amandonico e dal viso un po’ stanco capisco che è lì da un bel pezzo: sta preparando alcune candele.

Salgo le scale tra le immagini antiche, ma sempre nuove, di perdùne e di simboli e di statue e raggiungo gli altri confratelli che si stanno preparando per l’adorazione.

Si parla di Settimana Santa, di percorsi della processione in questo 250° anniversario della donazione delle statue della Vergine e di Gesù morto da parte della famiglia Calò, si parla di attesa e si vive già l’attesa.

Con sorpresa trovo Claudio Capraro autore di pezzi molto interessanti sul Nazzecanne. Ci sistemiamo l’abito di Rito e spalla a spalla per la navata centrale raggiungiamo l’altare. Genuflessione e poi si è lì, di fronte al Santissimo Sacramento.

Dodici candelabri ai piedi dell’altare, come le tribù di Israele, sei a destra e sei a sinistra dell’Ostia Consacrata con decine di candele accese. Pezzi di cera che cadono interrompono il silenzio surreale che si è creato. Una preghiera è per Peppe Albano: non vederlo in questi momenti fa rumore nel cuore di chi lo ha conosciuto.

Un altro pensiero vola in Libia, alle minacce di chi dice di essere a “sud di Roma” e ai Santi Martiri di Otranto.

Sono diversi grani del Rosario recitati per mantenere il clima di preghiera perché a volte i pensieri rischiano di portarti altrove e anche Gesù nell’Eucarestia sembra dire: ancora una volta “non siete stati capaci di vegliare un’ora sola con me?” (Mt 36-40)

Il tintinnio delle medaglie dei Confratelli che si alterneranno da lì a poco, è il suono che indica la fine di questo momento di adorazione.


E’ l’occasione per ripromettersi più momenti di fronte a Gesù, momenti di silenzio, momenti di spiritualità che rischiamo di perdere nella frenesia dei ritmi quotidiani.

mercoledì 18 febbraio 2015

Quarantore..preparazione alla Quaresima

Mattia Giorno 

“Tantum ergo sacramentum / veneremur cernui” (Un così gran Sacramento, dunque, adoriamo chinati)

Così, con queste parole, scritte su richiesta di Urbano IV, San Tommaso d’Aquino iniziava la chiusura dell’inno di venerazione Eucaristica, lo stesso che in questi giorni abbiamo cantato.

È ormai consuetudine, per le nostra comunità carmelitana, venerare il Santissimo Sacramento esposto in occasione delle Quarantore. Un gesto importante, oserei dire nobile, che ci prepara a vivere in spirito di raccoglimento e preghiera l’apertura del tempo quaresimale. Se poi pensiamo che proprio in questi giorni, nelle città di tutto il mondo, la gente è assorta nei pensieri di festa del carnevale, noi dovremmo sentirci fieri, da servi di Maria, di vivere invece queste quaranta ore in adorazione.

“Adorare”, dal latino “ad- orare”, nel senso di preghiera, è una parola che spesso usiamo nel nostro linguaggio comune, ma tra tutti i suoi significati e le sue traduzioni, ve ne sono due che a mio modo rispecchiano profondamente il senso di quello che noi ogni anno facciamo: “amare smisuratamente” e “baciare con la bocca”, inteso come senso di estrema adorazione e venerazione, richiamando una pratica antica e comune in Oriente.

Un rito, quello dell’adorazione, che risale probabilmente all’11 settembre 1226 quando, dopo la vittoria contro i Catari, re Luigi VII di Francia ordinò che il Sacramento fosse esposto. Una pratica antica, quindi, che da secoli il popolo cristiano celebra con immensa devozione, lasciandosi commuovere dal momento di profonda intimità dato dall’incontro con il Signore.

Ora, senza tracciare la storia completa delle Quarantore, che in sintesi richiamano il periodo di giacenza del corpo di Gesù nel sepolcro, ed ebbero inizio a Milano nel 1527, per poi essere per la prima volta proposte come “atto di riparazione” al carnevale nella città di Macerata, precisamente nel 1556; è importante che noi confratelli del Carmine, come da tradizione, ci prepariamo alla quaresima nel modo migliore, con la venerazione e l’adorazione. Se in effetti ci fermassimo a pensare un solo istante noteremmo come, l’adorazione del Santissimo Sacramento, non sia l’unico gesto di adorazione da noi effettuato durante l’anno ma, addirittura, sia il primo in attesa delle adorazioni della Croce che, nelle domeniche quaresimali, andremo a fare.

Quindi, nell’incontro con Dio, ci prepariamo a vivere un “calendario” intenso di fede, di preghiera e di pietà popolare, che non può essere vissuto al meglio se non con le quarantore.

È un invito per gli anni futuri, rivolto non solo ai confratelli ma all’intera città, è un ricordo di quello che è stato, è attesa per quello che sarà in questa quaresima.

Tutto ciò trova forza proprio nell’adorazione, perché è lì, in quell’ostensorio, che il Signore viene a vivere, viene ad incontrarci e darci forza.

Il silenzio, l’invocazione, le preghiere a Maria e Gesù Morto, che quest’anno saranno i veri protagonisti della nostra vita confraternale, sono stati di certo utili ad esaminare la nostra coscienza per prepararci al digiuno, all’astinenza ed alle adorazioni della Croce.

“Genitori genitoque / laus et jubilatio / salus, honor, virtus quoque / sit et benedictio. / Procedenti ab utroque / compar sit laudatio. / Amen.” (Al Padre e al Figlio lode e giubilo, salute, potenza, benedizione.A Colui che procede, pari gloria e onore sia).

Con queste parole ultime dell’inno “Pange Lingua” di San Tommaso d’Aquino, auguro a tutti voi una santa quaresima, sotto la protezione della nostra Mamma Addolorata

martedì 17 febbraio 2015

Le statue della Processione dei Misteri: La Colonna

Luciachiara Palumbo 

Pilato replicò: "Che farò dunque di quello che voi chiamate il re dei Giudei?". Ed essi di nuovo gridarono: "Crocifiggilo!". […] E Pilato, volendo dar soddisfazione alla moltitudine, rilasciò loro Barabba e, dopo aver fatto flagellare Gesù, lo consegnò perché fosse crocifisso.

Sembra che guardi in alto verso la luna che, offuscata dalle nuvole, ogni anno tenta di illuminare la notte del Venerdì Santo.
Era il 1899 quando il primo assistente della congrega consigliò all'allora priore Caminiti di far realizzare le tre statue da commissionare - "I tre fratelli di nome Gesù" -  al noto cartapestaio leccese Giuseppe Manzo. 

Allo stesso venne chiesto di porre sul capo del Cristo alla Colonna una corona di spine anche se entrava in contrasto con il Vangelo e di appoggiare le mani su una colonna, copia di quella presente a Santa Prassede e sulla quale venne flagellato Gesù.

Appare bello il Creatore nei nuovi panni, spogliato della sua dignità e vestito di piaghe che squarciano la pelle bianca.

I capelli lunghi come panno, asciugano il sangue che scende lungo le braccia e su quella fronte che nell'orto aveva ospitato solo qualche goccia. 

Quella dannata corona intrecciata con le spine e posta per scherno sul suo capo sembra essere la prima delle mille torture motivate solo dalla sua sete di amore.

 Le preziose mani legate indietro con una corda su una colonna sospingono in avanti il bel corpo coperto da un semplice pezzo di stoffa. 

Quel volto ruotato verso sinistra è la maschera del suo dolore, della sua disperazione e della sua sofferenza. Ci inganna, ci mostra l'aspetto divino di Gesù ma ciò solo se ci poniamo direttamente di fronte ai suoi occhi, sulla sua sinistra.

L'altro lato invece manifesta l'aspetto profondamente umano della passione evidenziato da quegli occhi lividi e da quella bocca aperta. La guancia destra incavata nell'interno esprime la sua intenzione di parlare e rappresenta l'inizio di quel dialogo con Dio le cui parole non conosciamo ma sicuramente possiamo immaginare… "O Padre, aiutami… O Padre, salvami… O Padre, rafforzami". 

Gli occhi volti al cielo implorano per noi Misericordia…



lunedì 16 febbraio 2015

..in notturna...

Valeria Malknecht

“Più scura la notte, più luminose le stelle,
 più profondo il dolore, più vicino è Dio!”
 (Fëdor Dostoevski)

Avete presente quel particolare odore che si sente subito dopo aver varcato la soglia di una chiesa?

È un odore misto di incenso, candele consumate e fiori.

Se il marmo avesse un odore, se le statue avessero un odore e se il sacro avesse un odore, sarebbe proprio questo…e si percepisce anche quando l’incenso ed i fiori in chiesa non ci sono.

Mentre entro in chiesa per la “mia” adorazione al SS. Sacramento in occasione delle Solenni Quarant’ore, sento quest’odore che mi avvolge.

È strano da spiegare, ma è come se mi invitasse alla preghiera, al silenzio, al raccoglimento. Quando tutto intorno è fermo immobile e ci si accorge di ogni piccolo particolare, anche olfattivo.

È l’occasione giusta per fermare il mio mondo, per staccare dai pensieri e dal lavoro che ultimamente mi sta portando a trascurare tante cose.

È il momento di dare importanza all’odore della chiesa, al rumore dei passi di chi è in chiesa, al suono gentile delle ginocchia che si piegano, alle labbra che si muovono in preghiera senza però emettere alcun suono.

Mi inginocchio davanti al SS. in segno di saluto, indosso il mio Scapolare e mi siedo ai primi banchi.

Tutto intorno è silenzio … sono quasi le undici di sera e l’atmosfera che respiro è a tratti magica, di certo inusuale.

Si è soliti associare l’immagine di una chiesa di notte al tetro.

Per me, invece, questa è l’occasione ideale per pregare. Di notte, quando fuori la città sta per andare a dormire e la chiesa non è affollata come al solito.

Perché la notte è intimità, l’intimità è preghiera, la preghiera è dialogo. Con Dio che è lì davanti a me e con me stessa.

Il tempo di quaresima è qui, ad un passo da me e lo sento arrivare davvero.

È nel suono dei rosari dei confratelli che, alle mie spalle, avanzano verso l’altare per darsi il cambio con gli altri che già da tempo sono in preghiera davanti al Santissimo.

Mentre osservo rapita l’altare, che è illuminato da tantissime candele, il suono delle medaglie dei rosari squarciano delicatamente quel silenzio.

Scandiscono un passo lento, ben definito, che presto sarà nazzecata.

I guanti bianchi sfioreranno quei grani ed in quei grani, nel dialogo con Dio, ognuno cercherà le proprie risposte.

Mi accorgo che in molti, come me, hanno scelto la notte.

E, guardandomi attorno, penso che è bello condividere questo momento di religiosa intimità con un amico o una amica fraterni, con la propria compagna o con il proprio compagno.

Resto ferma, immobile, ed è in questa staticità che mi accorgo di quanto io sia complicata ed “incasinata” e di quanto io abbia bisogno di questo silenzio.

Prego e penso alle persone che amo e che non sono qui accanto a me ora.

Prego per loro e per me stessa.

Ringrazio e chiedo perdono.

Mi interrogo sui miei errori, sulle occasioni mancate e su cosa io possa fare per migliorarmi.

Questo clima di raccoglimento mi costringe a dare ascolto ai pensieri, a quelli che normalmente fuggo nella quotidianità perché “ci penserò poi, ora non ho tempo”.

Intanto, osservo l’abito di rito dei confratelli, sento l’odore della cera e le mie dita “giocano” con il rosario che ho fra le mani.

La mia amica Annamaria, che è qui accanto a me, mi accenna un sorriso. Mi sento bene.

Dovrebbero esserci più occasioni come questa per pregare “in notturna”… ed è subito Quaresima.


LE FOTO DELL'ARTICOLO SONO DI F.CARBOTTI- PORTODIMARETER

La messa di apertura delle Solenni Quarantore

Antonello Battista 

Il calendario liturgico ogni anno prevede la ricorrenza che caratterizza la nostra preparazione alla Quaresima, ovvero la celebrazione delle “Solenni Quarantore” che nella serata di ieri sono ufficialmente iniziate con la Celebrazione Eucaristica d’apertura.

La Santa Messa è stata resa particolarmente solenne e significativa dalla presenza di Don Riccardo Petroni, Superiore Maggiore della Fraternità Sacerdotale “Opera Familia Christi” che ha presieduto la funzione e che tratterà durante le celebrazioni delle tre serate il tema de “L’Eucarestia nella vita dei Santi”. Con somma gioia e soddisfazione l’Arciconfraternita del Carmine ha ospitato una delegazione dell’Arciconfraternita della Morte dal Sacco Nero di Molfetta guidata dal Priore Sig. Giuseppe De Candia, presenza simbolica di una proficua collaborazione e fratellanza nella crescita spirituale dei due sodalizi nel solco della pietà popolare e della spiritualità che caratterizza le due congreghe.

L’omelia di Padre Riccardo Petroni ha fattivamente coinvolto i numerosi fedeli presenti, per l’attualità della riflessione e l’importanza del tema trattato. Padre Riccardo ha infatti sottolineato l’impossibilità della santità senza la presenza vivifica del Santissimo Sacramento nella vita quotidiana; solo esso è infatti unica fonte di coraggio e di forza per affrontare la vita nel mondo, che ci propone ogni giorno una nuova sfida col peccato metaforizzato nel Vangelo domenicale nella malattia della lebbra e la parabola del lebbroso. I peccati dei tempi moderni, sono in realtà tutte quelle parole e quelle dottrine che ci allontanano dalla Verità della parola di Cristo e che ci distolgono dunque dalla ricerca della santità.

Alla fine della cerimonia, il Priore del Carmine Cav. Antonello Papalia e il Priore dell’Arciconfraternita della Morte di Molfetta nei loro discorsi di saluto e ringraziamento hanno ribadito l’unanime volontà di proseguire la strada della fratellanza intrapresa insieme, poiché solo nell’unità si può dare il vivido esempio di testimonianza del Vangelo che nella pietà popolare estrinseca il suo volto più sincero e più vicino ai fedeli.


La piccola processione eucaristica all’esterno della Chiesa del Carmine coi confratelli delle due Arciconfraternite in corteo, ha liturgicamente dato il via ai turni di adorazione che si protrarranno ininterrotti sino alla serata di Martedì 17 nella quale la celebrazione della Messa di chiusura delle Quarantore ci farà finalmente calare anima e corpo nella Quaresima, preludio alla Settimana Santa, fulcro e perno della nostra fede e della nostra tradizione.

FOTO F.CARBOTTI - PORTODIMARETER

giovedì 12 febbraio 2015

Due cuori e un cappuccio


Luciachiara Palumbo 

"Nonno, fai il perdone?"

Con una semplice domanda di un bambino di 5 anni un sorriso nasce spontaneo. Mi alzo dalla poltrona e presa la sua manina, andiamo insieme in camera da letto.
Apro l'armadio centrale e trovo tutto così come lei lo ha lasciato. 

Il cappuccio è piegato accuratamente nel ripiano di sopra e delicatamente lo prendo per indossarlo e farlo vedere al mio nipotino. Il solo accarezzare quel tessuto mi riporta in mente tanti avvenimenti, ma è quando lo calo sul viso che le emozioni diventano più forti.

Marco mi guarda incuriosito, mentre piano piano diventa sempre più piccolo e sfocato alla mia vecchia vista. E mentre lui scompare raffiora in mente un'altra figura, è la mia amatissima moglie che mi ha lasciato pochi anni fa divorata come tante altre in questa città da quel male che ama strapparci alla vita e che lascia dei vuoti incolmabili in chi resta.

Quante volte l'ho guardata attraverso questi forellini, lei instancabile sempre al mio fianco, che si trattasse del Giovedi o del Venerdi santo, che ci fosse il sole o la pioggia, che fosse giovane o anziana…lei era la mia più fedele compagna, la mia spalla a cui aggrapparmi nei momenti di massima stanchezza.

Adesso solo così mi sembra di poter rivivere ogni singolo istante della nostra vita e di tornare indietro fino al momento in cui tutto ebbe inizio, in quel modo così insolito ma anche così comune per l'epoca. La Settimana Santa tarantina, unica e meravigliosa, era stata l'origine di tutto.

Se io e lei non avessimo condiviso la passione verso questo evento, se non mi fossi identificato in tutto ciò che aveva scritto nel suo primo articolo su Nazzecanne in attesa della Pasqua, se non avessi avuto il coraggio di scriverle i complimenti, io non l'avrei mai conosciuta.

Il bambino non può vedere il mio sorriso sotto il cappuccio , lo stesso sorriso del nostro primo incontro. Avvenne un mese dopo che avevamo iniziato a parlare, esattamente davanti al luogo che tutto aveva fatto nascere, la chiesa del Carmine. Mentre la aspettavo iniziai a guardarmi intorno sperando così di tranquillizzarmi. Quella piazza l'avevo già vista in tante occasioni eppure ogni volta suscitava un'emozione differente. 

L'attenzione si rivolse al portone, ai segni lasciati negli anni passati da tutti i troccolanti che impugnando il bordone avevano colpito per porre fine al rito. 

Presi nervosamente il cellulare e non mi accorsi che lei aveva già svoltato l'angolo ed era lì ad osservarmi. Passarono poche settimane ed eravamo di nuovo lì insieme, forse con meno imbarazzo e più complicità. Sotto la pioggia attendavamo ansiosi quel suono con la paura di non poterlo udire. Alle 17 in punto quelle maniglie iniziarono ad essere agitate, ma durò poco ed anche la marcia di sottofondo venne interrotta bruscamente.

 La scena del troccolante che indietreggiava mentre gli si chiudeva davanti il portone ci colpì tanto da ammutolirci. Non poteva la città non avere la sua processione e forse proprio le preghiere di molti ne permisero l'uscita due ore dopo. Avevo gli occhi fissi sulla mia statua quando senza accorgermene lei si appoggiò a me e iniziammo a nazzicare. 

All'inizio mi sorprese ma poi mi lasciai andare a quel mio primo dondolio.

mercoledì 11 febbraio 2015

Se il Rito diventa emozione

Antonello Battista 


Tante volte noi di Nazzecanne abbiamo raccontato ciò che si prova quando noi confratelli indossiamo il nostro abito e quando celati da un cappuccio compiamo i nostri riti penitenziali, nel momento in cui l’intimo di ognuno di noi viene stretto in mille emozioni, in mille pensieri su noi stessi, sulla nostra vita e su quella dei nostri cari, sulle nostre rinunce e sulle nostre mancanze che nel silenzio offriamo al Signore.

La nostra penitenza però non può esistere senza il rito ed essa non ha significato senza l’emozione; sì perché è il sentimento l’elemento fondamentale per l’atto penitenziale, poiché solo esso sa scuotere l’animo, solo esso può contrire una coscienza indurita dalla vita quotidiana e dagli affanni egoistici del mondo.

L’emozione è quindi fondamentale affinchè ogni gesto, ogni passo, ogni nostra preghiera si elevi al cielo ed arrivi efficace a Nostro Signore che solo nel silenzio legge il cuore dei suoi figli e li ricompensa con la sua presenza consolatrice; perché noi sentiamo Dio vicino, molto vicino quando abbiamo il cappuccio sul volto e in quegli attimi restiamo davvero soli con noi stessi anche se attorno ci circondano centinaia di persone incuriosite dal nostro andare, in coppia, a piedi nudi coi rosari in mano ed i cappelli sul capo, figure che sembrano essere uscite da una dimensione atemporale e che incedono lenti alla ricerca di Dio.


Nei Riti della Settimana Santa è la processione dei Misteri, che a giusta ragione catalizza le attenzioni per la sua “spettacolarità” e la sua maestosa imponenza visiva, che tuttavia sono presupposti necessari allo spirito della pietà popolare, ma a mio parere la vera e la reale dimensione intima di cui parlavo prima, si riesce a provare solo durante il Pellegrinaggio che noi confratelli svolgiamo il pomeriggio del Giovedì Santo agli altari della reposizione. In quella pia pratica, (che come ho già ribadito in altri articoli, è l’archetipo di tutti i Riti tarantini) ogni momento, ogni istante è davvero impresso nella memoria, affinchè ogni gesto tenda alla ricerca di Dio.

Sin dal momento della vestizione in oratorio, l’anima si prepara ad accogliere il Signore con fatica e con sacrificio, il pavimento freddo a contatto coi piedi appena spogliati dai calzini, ti fa ricordare di quanto la strada sarà dura e lunga, ma dura e lunga è anche la strada che conduce alla salvezza. Il saluto alla Croce dei Misteri nel salone ti rende partecipe del dolore e della sofferenza di Cristo, ma è quando sei già per strada che si estrinseca la tua essenza di pellegrino, la lenta nazzicata è un incessante anelito dell’anima verso Dio, preghi e speri che qualche passante osservandoti trasformi la sua curiosità in una preghiera, c’è chi addirittura vedendoti passare si fa un segno della croce e guardandolo ti senti più sollevato e più sicuro, perchè capisci che non sei solo sulla via. Durante la preghiera inginocchiato davanti al “sepolcro” ti senti libero, libero di dire a Gesù tutto quello che alberga nel tuo cuore, gli affidi la tua vita, gli affidi le tue preoccupazioni di uomo, gli affidi le tue gioie ed i tuoi dolori, ti affidi a lui, tu indegno figlio e lui amorevole padre.


Lasciarsi andare ai sentimenti ed alle emozioni, alla luce di ciò che ho scritto, non è un esercizio di mero sentimentalismo e non significa scostarsi dalla realtà, anzi la realtà, la tua realtà diventa il mezzo per poter rivolgere a Dio le tue preghiere.



Sono i bambini che solitamente si emozionano e si lasciano andare ai sentimenti, ed i nostri detrattori ci accusano spesso di infantilismo, come se noi “giocassimo” a fare i Perdoni, ma io mi sento di rispondere loro che solo chi guarda il mondo con l’animo di un bambino ha il posto accanto a Dio, perché egli è vicino a chi come noi ricerca in Lui la bellezza e la semplicità di una vita che quotidianamente ci chiede di condividere e vivere con Lui.

martedì 10 febbraio 2015

Le statue della Processione dei Misteri : Cristo all'Orto

Da oggi sino alla Settimana Santa la nostra Luciachiara ci parlerà delle Statue della Processione dei Misteri, la più piccola - ma più "confratella" - collaboratrice del Nazzecanne si cimenterà in un compito di cuore e storia che ci accompagnerà verso i nostri giorni. Buona lettura a tutti voi.    

Luciachiara Palumbo

"Padre mio, se questo calice non può passare da me senza che io lo beva, sia fatta la tua volontà"

Troccola, gonfalone, croce dei misteri sono appena usciti e, dietro le transenne, chi da ore attende per un ottima visuale, pare svegliarsi al suono del primo simbolo.

I bambini si sollevano sulle punte o chiedono di essere presi in braccio per spiare tra le tante teste la prima statua.

Essa venne realizzata nel 1923 in sostituzione di quella precedente estremamente pesante e di difficile aggiudicazione, così come riporta l'indimenticato Nicola Caputo in "Settimana Santa Nascosta". Costruita da Salvatore Sacquegna su commissione dei due confratelli Pasquale e Angelo De Leonardis uscì per la prima volta in processione nel 1924.

Dopo il bianco dei cappucci calati sui volti si cerca altro, si cerca l'altro. Il cuore degli spettatori batte all'impazzata ed i più attenti osservano l'immagine di Gesù specchiarsi a fasi alterne, a ritmo di nazzicata, nel vetro del portone del Carmine. 

Ma ecco che il suo volto lentamente appare sulla soglia e tutto ciò che precedentemente con le marce c'era stato comunicato ora diventa reale e lo strazio si può toccare con mano. Le prime gocce di sangue appaiono sulla fronte unite ad acqua.

 Inizia quell'itinerario umano e Cristo, uomo, ha paura di affrontare quella tortura e di doverlo fare da solo pur di salvare un mondo che poco comprenderà quel suo gesto. La bocca, socchiusa, implora con dolcezza di essere sollevato da quel peso mentre gli occhi persi nel vuoto cercano di incontrare i nostri. "Padre mio, se è possibile, passi da me questo calice!". 

E la risposta è un angelo che con le due mani avvicina quella coppa di sangue amaro, un angelo dal volto triste, un angelo che sa e che assiste silenzioso. " Però non come voglio io, ma come vuoi tu!". 
E' rassegnazione? No, non lo è … è passione, è voglia di amare fino all'ultimo l' umanità.



lunedì 9 febbraio 2015

Nostra Signora di Fatima

Antonino Russo 

La nostra Chiesa del Carmine ospiterà fino al prossimo 13 Febbraio la statua pellegrina della Madonna di Fatima e le insigne reliquie dei Beati Francisco e Giacinta Marto, pastorelli a cui apparse la Vergine.

Le apparizioni mariane più conosciute sono proprio quelle relative alla Nostra Signora di Fatima, uno degli appellativi della Madonna.
Tutto nasce dall’esperienza straordinaria di tre piccoli pastori, i fratelli Francisco e Giacinta Marto di 9 e 7 anni e della loro cugina Lucia dos Santos di 10 anni che il 13 maggio 1917 pascolavano il gregge in località Cova da Iria poco distante dalla città di Fatima, in Portogallo. 

Il loro racconto parla della visione di una nube discesa dal cielo e, al suo diradarsi, del comparire di una figura di donna vestita di bianco con in mano un rosario.
"Non abbiate paura - disse la visione - non voglio farvi del male". Lucia, sbalordita, chiese dunque alla misteriosa arrivata: "Di dove venite, Signora?". "Vengo dal cielo" fu la risposta.

Dopo questa prima apparizione, la Madonna diede appuntamento ai bambini per il 13 del mese successivo, dal 13 maggio fino al 13 ottobre.

Le apparizioni furono accompagnate da rivelazioni su eventi futuri:

- la fine della prima guerra mondiale che sarebbe arrivata a breve

- il pericolo di una seconda guerra ancora più devastante se l’umanità non si fosse convertita

- la minaccia comunista della Russia, per combattere la quale la Madonna chiese la Consacrazione della nazione stessa al Cuore Immacolato di Maria, per opera del Papa e dei Vescovi

L’esperienza dei bambini fu accompagnata anche dalla sofferenza poiché inizialmente non furono creduti dalla famiglia e dalle istituzioni civili e religiose dell’epoca.

Ma la Madonna promise un segno prodigioso e il 13 ottobre 1917 molte migliaia di persone, credenti e non credenti, raccontarono in diverse testimonianze di aver vissuto, anche a distanza di parecchi chilometri, il fenomeno che fu chiamato "miracolo del sole".
Foto: G.Schinaia 


Mentre pioveva e il cielo era coperto da nuvole, la pioggia cessò e le nuvole si aprirono: il sole, tornato visibile, sarebbe “roteato attorno a un punto esterno e ad agitarsi, divenendo multicolore e ingrandendosi, come precipitando sulla terra”.

I due fratelli Francesco e Giacinta morirono rispettivamente nel 1919 e nel 1920, a causa di una epidemia e il 13 maggio 2000 furono beatificati da papa Giovanni Paolo II.

Lucia invece divenne monaca carmelitana scalza, e scrisse nelle sue Memorie gli eventi accaduti a Fatima da lei direttamente vissuti: morì a 98 anni nel 2005.

Nel 1930 la Chiesa cattolica autorizzò il culto riconoscendo la natura sovrannaturale degli eventi di Fatima dove fu edificato un santuario, visitato da papa Paolo VI il 13 maggio 1967 e successivamente da papa Giovanni Paolo II, pontefice molto legato alla Vergine di Fatima.

Il prossimo 13 Febbraio le reliquie dei Beati Francisco e Giacinta Marto saranno trasportate presso il santuario diocesano Nostra Signora di Fatima a Talsano dove il nostro Padre Spirituale, Mons. Marco Gerardo, celebrerà la Santa Messa.
Foto: G.Schinaia




domenica 8 febbraio 2015

La Settimana santa attraverso gli occhi di una telecamera


Valeria Malknecht 

La nostra settimana santa è un evento tutto tarantino, che riguarda da vicino la nostra città e che la nostra gente sente e vive in modo del tutto particolare.

Alcuni di noi, anzi molti di noi, convivono con questo pensiero per tutto l’anno in modo (bonariamente parlando) quasi maniacale.


Dall’attesa della quaresima, al periodo di quaresima vero e proprio, passando anche per i vari appuntamenti che caratterizzano quei giorni (si pensi alle quarant’ore, alle via crucis, ai concerti di marce funebri e alle occasioni di preghiera), fino ad arrivare alle tanto attese gare e processioni, la città si prepara a vivere, con devozione, la propria Pasqua.

Negli ultimi tempi è capitato che i nostri riti siano stati raccontati attraverso l’obiettivo di una telecamera o comunque inseriti in alcuni film per fare da sfondo o da cornice a trame ben più complesse e delicate che riguardano la nostra Taranto.

Eh sì, perché è giusto che i Riti della settimana santa non restino una cosa solo nostra, del popolo tarantino, ma siano anche trasmessi e raccontati agli altri.

Le nostre processioni sono state, ad esempio, oggetto di servizi giornalistici, poi proposti su alcune reti nazionali come raiuno e canale 5.

A volte la cronaca riportata ha saputo ben rendere il senso delle nostre tradizioni.

Altre volte non è stato proprio così: dalle nostre parti, ad esempio, i confratelli non si flagellano procurandosi delle ferite (cosa ben diversa è simulare il flagello battendo il rosario che si tiene in mano sul petto).

In altre occasioni, invece, la nostra pietà popolare è stata immortalata ed omaggiata dall’occhio e dalla penna attenti di alcuni registi.

Ciascuno ha voluto sottolineare un particolare aspetto delle nostre tradizioni.

C’è chi come Marcellino De Baggis, nel film “Mistero e sgomento”, ha messo in risalto l’aspetto emozionale dei riti.

Il regista ha voluto raccontarli “dal di dentro”, attraverso gli occhi del troccolante che nel film si presenta sia come narratore che come protagonista.

Sta per rientrare, il suo bordone è pronto a bussare per tre volte, ma la sua mente viaggia indietro a ciò che è stato.

Le sue sono parole che esprimono i pensieri di un uomo fra tanti ed in cui lo spettatore può riconoscersi facilmente … “ho sbagliato, ho sicuramente fatto del male, ho fatto tutto quello che ho potuto per essere qui, ho camminato tutta la notte, non mi sento più le gambe, non mi sento più le braccia. Pochi metri mi separano da quel portale, ancora pochi passi e tutto sarà finito…avanti, alza quel bastone, tre colpi e sarà tutto finito…”.

Il battito del cuore ed il suono della troccola fanno da sottofondo costante al racconto.

Il troccolante guida lo spettatore fra i suoi ricordi, lo introduce nella sua vita, gli spiega cosa significa nazzecare e cosa vuol dire amare queste tradizioni... “per capire veramente quanto i tarantini amino i loro riti bisogna venire il venerdì mattina presto a vedere l’Addolorata che attraversa il ponte girevole…”.

Nel film “Mar Piccolo”, invece, il regista A. di Robilant ha voluto lasciare i nostri riti come sfondo di un altro tipo di racconto.

Qui i nostri riti “sopravvivono” alla potenza dell’acciaio, alla morte dovuta alle malattie, alla protesta di una madre che lotta per il bene dei propri figli.

I perdoni qui non parlano di emozioni, né emozionano.

Fanno da cornice ad una città malata, ma che vuole conservare di sé le proprie tradizioni.

Sono i testimoni silenti di un rito che resta, nonostante tutto.


Qualsiasi sia il mezzo attraverso cui li si raccontano, i riti della settimana santa sono insieme simbolo di ciò che emoziona e, al tempo stesso, di ciò che sopravvive della nostra città.

La lente di una telecamera ne interpreta una sfaccettatura, o un particolare.

I nostri occhi, il nostro cuore e la nostra memoria li vivono e li faranno vivere ancora e ancora.

Un film e la nostra memoria, insieme, li renderanno eterni.

giovedì 5 febbraio 2015

La preghiera del corpo nella Pietà Popolare

Dal trattato "Brevi cenni sulla preghiera del corpo" di Giovanni Schinaia, una sintesi in tre puntate:

1) La preghiera del corpo nella Liturgia


2) La preghiera del corpo nella Pietà Popolare (qui di seguito)

nelle prossime settimane:

3) I gesti della nostra Settimana Santa, valore latreutico e valore simbolico - didattico


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La pietà popolare è una nostra forza, perché si tratta di preghiere molto radicate nel cuore delle persone. Anche persone che sono un po' lontane dalla vita della Chiesa e non hanno grande comprensione della fede sono toccate nel cuore da questa preghiera. Si deve solo «illuminare» questi gesti, «purificare» questa tradizione affinché diventi vita attuale della Chiesa.”

Così insegnava l’amato Papa Benedetto XVI nel 2007 rivolgendosi ai parroci della Diocesi di Roma. Intanto è molto bello sentire le parole del Vicario di Cristo che si riferiscono alla pietà popolare in termini di “forza” per la Chiesa. E poi, per quanto riguarda l’aspetto specifico che qui ci interessa, il Papa, de facto, già definisce la pietà popolare come una preghiera di “gesti”. E' proprio per questo che possiamo parlare di “preghiera del corpo” nell’ambito specifico della pietà popolare.

Nella prima parte di questi brevi appunti sulla preghiera del corpo, abbiamo già notato come della preghiera “verbale”, cioè delle parole che vengono pronunciate dai fedeli, il complesso dei gesti e delle posture costituisce un vero e proprio complemento irrinunciabile. I due linguaggi, quello verbale e quello gestuale, concorrono alla medesima preghiera. E abbiamo ricordato anche come la Chiesa abbia costantemente insegnato che la liturgia è al centro della vita di pietà del cristiano. Se dunque la pietà popolare è una sorta di “prolungamento” della liturgia, è proprio nei gesti di quest’ultima che possono e devono trovare un senso e una giustificazione i gesti della pietà popolare. È nell’imitazione, in definitiva, della sostanza di quelli, che i gesti della preghiera “popolare” troveranno quella luce e quella purezza di cui parlava l’amato papa Benedetto. Abbiamo quindi a disposizione un criterio reale per stabilire se e quanto la preghiera popolare, e i suoi gesti che qui in particolare ci interessano, sono o non sono “puri”, in che misura cioè, sono veicolo di santificazione per chi li compie, e di evangelizzazione per chi vi assiste. È il criterio della aderenza alle forme liturgiche: un criterio concreto, visibile, alla portata di tutti. Un criterio dal quale sarebbe temerario discostarsi. Quando questo è successo, nella storia della Chiesa, si è caduti nella stravaganza o, nei casi peggiori, nell’eresia. Non seguendo quel criterio, il rischio che corriamo è quello della autoreferenzialità: quel rito, quel gesto, quella funzione si fa così perché… si è sempre fatto così. Ma si tratta, a ben vedere, di una trappola, una sorta di tautologia storica e normativa che si arrotola su se stessa e finisce per condurci in un vicolo cieco. A quel punto chiunque, per qualunque motivo, si presenti con l’intenzione di “far del male” a quelle tradizioni a cui noi teniamo tanto, avrà vita facile: quale argomento logico e storico avremo da opporre a chi accuserà i nostri riti di essere superati e senza senso, e accuserà noi di essere dei passatisti nostalgici?

Alla scuola della liturgia, nella Santa Messa innanzitutto, ma anche nella celebrazione dei Sacramenti o nel Salterio, impariamo immediatamente la compostezza e la misura dei gesti. Una compostezza e una misura che, assimilate fino a divenire una forma mentis, un modo di esprimere visivamente la fede, troveremo poi spontaneo e naturale trasferire nella preghiera popolare. Alla scuola della liturgia impareremo ancora che i gesti non sono mai lasciati al caso; impareremo che il gesto, come la parola cui si accompagna, esprime sempre un messaggio che è necessario conoscere, approfondire, tenere ben a mente. Altrimenti quel gesto sarà solo un contenitore vuoto; non sarà più preghiera del corpo ma solo una sequenza di movimenti senza costrutto.

Gli esempi possibili sono innumerevoli. L’esercizio di pietà popolare più diffuso in tutto l’ecumene cristiano è sicuramente la preghiera del Santissimo Rosario, la “preghiera prediletta” di una schiera incalcolabile di Santi e di Pontefici, fino ad arrivare a Papa Francesco che, di ritorno dopo ogni viaggio fuori Roma, prima di rientrare nella propria residenza, si reca nella Basilica di Santa Maria Maggiore per un Rosario di ringraziamento dinanzi alla venerata immagine della Salus Populi Romani. Il Rosario è apparentemente una preghiera di sole parole. Non è così. Il Rosario è preghiera di contemplazione e la contemplazione richiede la compostezza del corpo, che in questo senso quindi, si rende preghiera essa stessa; quella compostezza, anche nell’immobilità, che avremo imparato nella contemplazione durante la Messa, o nella Liturgia delle Ore. Non è un caso che il Rosario sia stato da sempre definito come il Salterio dei poveri. E proprio della preghiera del Salterio, a partire dalla ripetitività, è bene che continui a conservare e preservare le caratteristiche. Ci apparirà quanto meno inopportuno – se non importuno! – quel “devoto” che dovesse accompagnare la lunga serie di Ave Maria con gesti sciatti o irriverenti. Sgranando la Corona fra le dita, potremo recitare il Rosario seduti o inginocchiati, davanti a una immagine della Vergine o durante l’Adorazione eucaristica, in piedi nel corso di una processione, o anche nel mentre di una amena passeggiata. I testimoni del tempo, ad esempio, ricordano come il santo papa Giovanni XXIII fosse solito recitare il Rosario mentre si spostava da una stanza all’altra dei Palazzi Apostolici. In tutti i casi il corpo pregherà all’unisono con le parole pronunciate o pensate.

Un esempio di preghiera del corpo che sta a cuore a tanti che, come noi, hanno compiuto la scelta libera di aderire a una Confraternita, è sicuramente la processione devozionale: si prega col corpo, che si tratti di reggere una statua, un simbolo, un cero, o che si tratti anche solo semplicemente di camminare insieme ai fratelli, precedendo o seguendo il Crocifisso, o l’immagine della Vergine o di un Santo. Mediante la processione, la Chiesa rappresenta se stessa come comunità in cammino. Si tratta in definitiva di una catechesi itinerante, tanto per chi vi partecipa in qualsiasi veste, tanto per chi vi assiste. A tal proposito, papa Francesco, in più occasioni, ha ricordato come la pietà popolare porta in sé la grazia della missionarietà e dell’evangelizzazione. In perfetta sintonia col Santo Padre, il nostro Arcivescovo, mons. Filippo Santoro, parlando della nostra Settimana Santa nel 2013, ricordava come il fine ultimo delle nostre processioni fosse quello di veicolare la bellezza della fede cristiana. Parole dolcissime, esaltanti… ma anche terribili, perché terribile è l’impegno che comportano. E ci viene in soccorso proprio quel criterio cui si accennava prima, l’aderenza dei gesti “popolari” alle forme liturgiche. Pur nella semplicità, la preghiera del corpo in una processione, trasmette – o dovrebbe trasmettere – raccoglimento, devozione, consapevolezza delle proprie azioni, gioia cristiana nella condivisione comunitaria della fede. Anche in questo caso si tratta di valori che apprendiamo dalla liturgia e – naturaliter – trasferiamo nella preghiera popolare. Nel caso specifico, impariamo la compostezza dei gesti, l’ordine, il fasto – e non il lusso, come credono gli ignoranti – del portamento proprio dalle processioni liturgiche: quella introitale od extroitale della Santa Messa, quella eucaristica il Giovedì Santo o il giorno del Corpus Domini, quella gloriosa nella memoria dell’ingresso del Signore in Gerusalemme, la Domenica delle Palme.
Ognuno di noi sa bene quanto nella nostra Confraternita si dedichino infinite energie fisiche e mentali al decoro di ogni processione; ognuno conosce l’impegno profuso nella cura del più piccolo dettaglio. Un impegno che allo sprovveduto potrebbe sembrare inspiegabilmente maniacale, ma che per noi è naturale e irrinunciabile, un impegno che non ammette eccezioni, che si tratti dei Sacri Misteri o che si tratti della processione occasionale dalla cappellina al portone centrale! Tanta cura nasce, per un processo logico di filiazione ed emulazione, dalla cura dei gesti liturgici. Chiunque può fare la prova: laddove, in qualunque parte del mondo, assistiamo a Messe “beat”, “rock”, “creative”, approssimative, di sicuro assisteremo poi a processioni devozionali simili ad una allegra scampagnata... niente a che vedere con lo splendore e la dignità o addirittura la maestà e la ieraticità che possiamo dire, senza tema di smentita, di conoscere bene.
Una liturgia decadente non può produrre che una pietà popolare decadente e – ahimè – destinata alla lenta e inesorabile consunzione di se stessa. Non è un caso che il periodo del cosiddetto “inverno della pietà popolare”, i truculenti anni ’70 del XX secolo, sia coinciso con certi maldestri tentativi di applicazione del Concilio Vaticano II: qualcuno, travisando completamente la lettera e la mens dei documenti offerti alla Chiesa dai Padri Conciliari, ritenne di avviare un processo di semplificazione della liturgia, sconfinando quasi sempre nella banalità. A quel punto moltissimi dei segni e dei gesti di cui la liturgia splendeva, sono divenuti incomprensibili, rimasti come appesi nel nulla, e quindi spesso sottovalutati, trascurati e, infine, dimenticati. E naturalmente appesi nel nulla sono sembrati tanti gesti della preghiera popolare che avevano ormai perso il loro riferimento concettuale e normativo. Ecco perché in quegli anni in molti hanno tentato di convincerci che la pietà popolare, con i suoi riti, gesti, processioni, fosse un retaggio ormai inutile o addirittura dannoso. Hanno tentato di convincerci… e, grazie a Dio, almeno con noi, non ci sono riusciti!

Nella liturgia non c’è niente che sia lasciato al caso o alla fantasia peregrina del creativo di turno. È naturale che il fedele, affascinato, edificato ed istruito dal semplice splendore – o dalla splendida semplicità – delle forme liturgiche normate, tenda poi a interpretare ed elaborare quelle forme nella preghiera del cuore, nella preghiera popolare. Non si tratterà, a quel punto, di seguire pedissequamente a memoria un triste copione; sarà invece il frutto di una solida formazione e di una mentalità acquisita. L’inconsapevolezza del devozionismo infantile avrà lasciato il passo alla certezza della devozione adulta. Su questo particolare aspetto, il Padre Spirituale della nostra Confraternita, mons. Marco Gerardo, è tornato a insitere più volte negli ultimi anni, in catechesi, omelie, incontri di formazione. Memorabile, a tal proposito, è rimasta l'omelia per la Messa in piazza Carmine del 15 giungno 2014, al termine della processione straordinaria per l'accoglienza delle statue di Gesù Morto e dell'Addolorata con i segni di distizione pontificia.

Recuperare, dunque, e approfondire il rapporto di stretta conseguenzialità dei gesti della preghiera popolare rispetto ai gesti della liturgia. Facciamoci caso: di solito i detrattori della pietà popolare – sono così tanti i soloni malparlieri che abbiamo solo l’imbarazzo della scelta – sono accomunati tutti, quale che sia la loro provenienza culturale, o più spesso sub-culturale, da una sorta di marchio di fabbrica: non capiscono e quindi non amano la liturgia! Chi pretende di pontificare sui gesti della pietà popolare, su quella preghiera del corpo, sostenendone una presunta mancanza di significato, esprime un giudizio inopportuno perché solitamente gravato da ignoranza o, peggio, da inettitudine. È un problema di incomunicabilità: evidentemente il detrattore non coglie in quei gesti il legame con le forme liturgiche. È una incomunicabilità che può essere imputata, come si diceva, all’ignoranza di chi esprime giudizi affrettati. Ma con tanta onestà intellettuale, amore per la verità e soprattutto con tanta carità verso noi stessi e verso gli altri, abbiamo il dovere di chiederci se tante volte non siamo stati noi in grado di comunicare in modo poco adeguato. Ecco perché, nel nostro secolo più che in passato, nella nostra società che dal non-cristianesimo sta baldanzosamente ormai trotterellando verso l’anti-cristianesimo, oggi più che mai, siamo interpellati dall’urgenza di recuperare e acquisire la consapevolezza piena e sicura dei nostri gesti, delle nostre tradizioni, del nostro retaggio devozionale, cultuale, rituale. Se amiamo le “nostre cose”, non c’è alternativa. Al tempo dei nostri nonni poteva ancora essere sufficiente una adesione vagamente sentimentale: la processione è bella perché mi piace, perché mi emoziona, perché mi ricorda i miei predecessori… è bella… perché si! Oggi tutti questi “perché” rimangono validi, certo, ma non sono più sufficienti senza la dovuta consapevolezza.

Siamo fanti in trincea, a difesa di una cristianità assediata dal secolarismo, dall’ateismo, dal relativismo, dal sincretismo, dalla superficialità, dal pensiero debole, dal pensiero unico, dal modernismo. Le armi di cui possiamo disporre sono l’orazione e la testimonianza. Dobbiamo saperlo e dobbiamo ricordarlo: ogni volta che portiamo le nostre statue in strada, in processione, ogni volta che preghiamo in pubblico, ogni volta che vestiamo i nostri abiti di rito, ogni volta che ci azzardiamo anche solo a fare un segno di Croce, ogni volta stiamo sfidando quella parte di mondo che non ci vuole, non ci capisce, non ci vuole capire. E lasciamo pure che il professore e l’esperto convocato alla bisogna ci vengano a raccontare di quanto siamo belli e di quanto siamo, folkloristicamente e antropologicamente, interessanti. Ci farà piacere, perché no! Ma la sostanza del nostro gesto devozionale è un’altra: la nostra è la buona battaglia di cui scriveva San Paolo.
E allora quel giorno, quel Sabato Santo quando, stanchi, sfiniti, doloranti, gonfi gli occhi e tirati i cuori, forse con i piedi e le spalle a pezzi, al termine del lungo pellegrinaggio, quando quel giorno faremo ritorno alla nostra Chiesa, quando poggeremo sui legni le nostre statue, quando riconsegneremo i bordoni e i simboli, quando svestiremo il nostro abito, devotamente come quando l’avevamo indossato, allora potremo dire insieme all’Apostolo: Bonum certamen certavi, cursum consummavi, fidem servaviHo combattuto la buona battaglia, ho terminato la corsa, ho conservato la fede!


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